Maria Pia De Vito è la nuova direttrice artistica di Bergamo Jazz Festival. La cantante napoletana sarà la protagonista di un concerto al Lazzaretto martedì 18 giugno, per la session estiva del festival jazzistico cittadino.
Nel primo set, accompagnato dal grande chitarrista Ralph Towner e dal pianista Huw Warren, ripercorrerà alcune composizioni del trio. Nel secondo invece sarà alle prese con le canzoni di Joni Mitchell insieme a Julian Oliver Mazzariello al piano, Luca Bulgarelli al contrabbasso e Alessandro Paternesi alla batteria (ospite il sassofonista Tino Tracanna). L’altro appuntamento con la mini rassegna è per lunedì 17 con il Tingvall Trio.
Abbiamo incontrato De Vito nei giorni scorsi proprio al Lazzaretto. E invece di un’intervista canonica, le abbiamo proposto una fotointervista con alcuni scatti significativi per il suo percorso e per questa nuova avventura di Bergamo Jazz. Curiosa, coltissima e magmatica (come la sua città, Napoli), ci ha regalato un racconto-fiume tutto da leggere. Ottimo spunto per approfondire ulteriormente una figura centrale del jazz italiano ed europeo. Che da Napoli – passando per il Brasile, le moresche di Orlando di Lasso e tanto altro – arriva a Bergamo con la sua visione musicale all’insegna delle differenze, della creatività e del meticciato.
Bergamo
Quando sono salita sul palco del Creberg nell’ultima sera di Bergamo Jazz per il passaggio di testimone con Dave (Douglas, ndr) ero molto emozionata, ma la reazione del pubblico è stata calorosa.
Poi ho passato due giorni a visitare le varie location del Festival e ho capito che ci sono tante possibilità per fare dei bei concerti e i luoghi stessi suggeriscono un certo tipo di artisti. Infine devo dire che il gruppo di persone che lavora a Bergamo Jazz è proprio efficiente, gentile e sempre a disposizione. Insomma il primo impatto con Bergamo è stato ottimo.
Dave Douglas
Conosco molto bene il lavoro di Dave. Le ultime edizioni del festival sono state giustamente una sua emanazione, e così è accaduto per ogni musicista che lo ha preceduto: Rava, Fresu e Uri Caine. Mi sento fortunata ad avere questo precedente che parla di diversità e creatività, perché in fondo è la cifra del mio lavoro nel tempo.
In un secolo il jazz si è evoluto in una maniera pazzesca, pensiamo solamente a quello che Coltrane ha fatto in dodici anni, è passato dal bebop fino ad arrivare su Urano. Io amo rappresentare il più possibile questa evoluzione e nel farlo mi trovo fra le mani un’eredità culturale molto forte, che è quella del jazz per come lo conosciamo, nei suoi mille filamenti.
A me piace più parlare di eredità che di tradizione perché la tradizione è l’eredità che dobbiamo utilizzare per attuare un’evoluzione, per andare avanti procedendo in maniera sempre nuova e differente. Quindi la mia impostazione sicuramente seguirà questa impronta all’insegna della diversità, della creatività inaspettata, sempre con uno sguardo al contemporaneo.
Quando parlo di contemporaneità intendo un approccio senza divieti verso nulla, né verso il mainstream né verso l’avanguardia. Detto ciò, non si può piacere a tutti, soprattutto in un ambiente così passionale come quello dei jazzofili. Quindi ogni proposta troverà una sacca di scontento da parte di qualcuno, ma io voglio dare uno sguardo sulla contemporaneità, fotografare il maggior numero possibile di diramazioni del jazz in Europa, a New York e altrove. Quello di rappresentare le mille facce del jazz oggi lo sento come un dovere.
Ralph Towner
Con Ralph e con John Taylor, che purtroppo è scomparso, abbiamo fatto molti concerti. Per me sono due persone importantissime, due mentori. Ho incontrato Ralph la prima volta dopo il primo concerto in duo con Taylor, lui era fra il pubblico. È venuto in camerino e ci siamo conosciuti, per poi ritrovarci in una pizzeria isolata, lontana dalla folla. Alla fine della cena si è formato il trio. Sono quelle giornate fortunate che accadono qualche volta nella vita, la ricorderò sempre.
Suonare con Ralph e John è stato come fare l’università della musica, mi hanno insegnato veramente ad ascoltare. Ralph è il più europeo degli americani che io abbia incontrato nella mia carriera, è stato un innovatore con gli Oregon e ha aperto una strada nuova per tutti. Mi è piaciuto invitarlo in questa occasione perché per me è stato un incontro fondamentale. L’ho avuto come ospite in “’O Pata Pata”, il secondo disco che ho fatto con Huw Warren dopo “Dialektos”.
La prima parte del concerto di martedì prossimo rappresenta il mio lavoro di approccio a culture diverse. Ci sono composizioni originali mie, di Ralph e di Huw, nelle quali uso anche la lingua napoletana e c’è pure una parte improvvisativa consistente. Il concerto si chiama come il disco, “Dialektos”, una parola greca che sta a indicare un’articolazione del linguaggio basata sulla voce dei popoli più intima e propria.
Joni Mitchell
È una questione di passione, di amore. Ho scelto di dedicare la seconda parte del concerto a lei perché in adolescenza è stata molto importante per la mia formazione. Allora ascoltavo solo musiche etniche, non amavo il rock. A 19 anni ho deciso di fare jazz e Joni Mitchell è stata l’unica artista extra jazz che io abbia veramente seguito. L’avevo appena incontrata e poi non l’ho abbandonata negli anni.
A parte la sua vocalità angelica e la capacità di scrivere canzoni con testi meravigliosi, disco dopo disco l’ho vista sempre di più come un’artista rinascimentale: una poetessa, una pittrice e una compositrice. Queste attività hanno influenzato la sua scrittura, l’hanno resa sempre più personale e “asimmetrica”. L’incontro con Mike Gibbs ha poi dato vita a “Paprika Plains”, la prima suite di venti minuti nel disco di una songwriter, con una parte d’improvvisazione importante.
Ma Joni Mitchell significa anche Wayne Shorter, Herbie Hancock e molti altri. Incontri che hanno reso la sua musica sempre più attraente per quanto riguarda i colori, l’interplay, l’imprevedibilità del sound, in una parola la libertà. Le collaborazioni sono state un riferimento essenziale per il suo lavoro: senza proclami ha abbattuto molte barriere fra linguaggi musicali e questo per me è sempre stato interessante.
Chico Buarque De Hollanda
(manda baci alla fotografia e sorride, ndr) Chico è Chico. Lui ha partecipato al mio disco “Core/coraçao”, in cui ho tradotto dal portoghese al napoletano alcune grandi canzoni di autori brasiliani. È un lavoro nato dall’incontro con Guinga, un compositore sconvolgente che qualche anno fa mi propose di lavorare insieme.
Durante le prime prove con Guinga cantai delle parti vocalizzate ed ebbi un’illuminazione su alcuni brani, che avevano un qualcosa di italiano nelle melodie. Lui, attraverso il padre, aveva ascoltato Puccini e l’opera italiana, la musica napoletana, ma pure Cole Porter e Duke Ellington. Dall’incontro si aprì una porta: in quattro giorni finimmo le traduzioni in napoletano di sei brani, in altre parole era scattato qualcosa. Fra queste canzoni c’era “Você Você” scritta da Guinga con Chico Buarque, entrai in contatto con lui e la risposta fu così entusiasta che cominciò un rapporto epistolare e un’amicizia.
Intanto però nella mia vita succedevano molte altre cose, altri dischi, l’amicizia cresceva d’intensità e ad un certo punto mi sono trovata con un corpus di canzoni tradotte in napoletano che sono molte di più di quelle contenute nel disco. Parlare con Chico di letteratura, musica, poesia è un’esperienza fortissima, lui è il sommo poeta e quando ha deciso di partecipare a “Core/coraçao” è stata una grande soddisfazione. Ma ancora di più quando si è innamorato della mia traduzione di “O Meu Guri”, tanto da decidere di cantarla in napoletano. È così che ci siamo incontrati dal vivo ed è stato un incontro molto allegro, pieno di risate. Il bambino della canzone nella versione brasiliana corre nelle favelas, nella mia corre per i vicoli di Napoli.
Burnogualà
Questo è un altro pezzo del mio cuore. La foto ritrae la performance a Ravello con il coro Burnogualà: nel primo anno di direzione artistica del programma jazz di Ravello Festival mi diedero carta bianca, allora decisi di organizzare una tre giorni tutta dedicata alla voce. Burnogualà è una parola contenuta in una delle moresche di Orlando di Lasso.
Tenevo le sue partiture nel cassetto da quando avevo diciotto anni. Quando le sentii per la prima volta allora nacque un amore folle per la musica barocca e rinascimentale. A ciò si unì poi la passione per la musica napoletana di quel periodo e dei successivi grazie al lavoro di Roberto De Simone. Di Orlando di Lasso mi avevano colpito il contrappunto, la polifonia, e queste parole assurde in mezzo al napoletano, che poi ho scoperto appartenere alla lingua Kanuri, parlata nell’area Nilo-Sahariana.
Indagando ho saputo che a Napoli nel Rinascimento arrivarono degli schiavi attraverso la tratta, una cosa pazzesca che ci dice come la storia si ripeta ciclicamente. Orlando di Lasso a Napoli ci è stato solo due-tre anni, ma in quel poco tempo ha conosciuto delle influenze di culture africane che sono finite nelle sue moresche.
Nel mio periodo di insegnamento al Santa Cecilia di Roma avevo una classe molto estesa e dovevo trovare qualcosa di interessante per un grande numero di allievi. Le moresche furono una soluzione: la risposta da parte loro fu entusiasta e così nacque questo coro di ventitré voci e poi il disco “Moresche e altre invenzioni”. È un lavoro che contiene delle moresche e delle invenzioni legate ad essere, accompagnate da piano, contrabbasso, kora e balafon. È stata un’esperienza esaltante sia per loro che per me come direttrice di coro alle prese con un repertorio di grande fantasia musicale.
La voce
Da ragazzina volevo fare la pittrice, ma continuavano a chiamarmi per cantare in vari gruppi, soprattutto di musica etnica ed è così che mi sono appassionata a quei generi. Allora cantavo in tredici lingue diverse, un bell’esercizio di apertura mentale ma anche un battesimo di fuoco per quanto riguarda la voce. Poi a diciannove anni mi sono avvicinata al jazz e ho iniziato a comprare dei dischi: Ella Fitzgerald, John Taylor, Weather Report, fino a “Cantare la voce” di Demetrio Stratos. Tutto questo è stato uno shock culturale dentro al quale dovetti trovare una mia strada.
Decisi allora di partire dalla tradizione del jazz, a cui mi sono dedicata per una decina di anni. Poi ad un certo punto ho sentito il bisogno di un maggiore spazio di libertà e ho capito che dovevo tornare alle mie radici. Lì c’è stato un cambio vocale, con il disco “Nauplia”. Uno scatto evolutivo da un approccio muscolare alla voce verso un approccio “sensibile”. Il percorso che ho compiuto mi ha portato a comprendere che la voce è uno straordinario strumento di conoscenza di sé stessi. E che ogni progetto è una possibilità di trasformazione, di allargamento, di ulteriore comprensione.
Dischi come “Nauplia” e “Phonè” sono stati molto importanti in questo senso. “Phonè” anche come ricerca della voce prima del linguaggio. Ma questa ricerca è stata anche alimentata da delle conversazioni con un mio amico filosofo. Quando mi disse che la voce era uno dei temi fondamentali della filosofia del presente iniziai ad approfondire con la lettura di Deleuze, Derrida, ma anche Aristotele e Platone.
Questa cosa rimane un faro per me, così come l’incontro con tanti musicisti fondamentali. L’ispirazione può arrivare da un quadro, da una poesia o da molti altri stimoli. A quel punto devo trovare la mia sintonia e la cerco sempre attraverso il suono. Perché è il suono che si propaga prima della parole, è con ciò che il nostro corpo comunica con chi abbiamo davanti.
Napoli
La mia città è contraddittoria. Ma è la città al mondo con il patrimonio musicale più pazzesco che ci sia. Per le sue stratificazioni culturali, per la capacità di assorbire tutto ciò che incontra. È una città meticcia e questa è una grande ricchezza. Nelle musiche napoletane ci sono influenze romane, francesi, spagnole, africane.
A quindici anni i miei compagni ascoltavano rock, a me non importava nulla e invece ero attratta da quello che faceva la Nuova Compagnia di Canto Popolare. La loro capacità di unire le forme colte con quelle del popolo, i madrigali con le villanelle del Cinquecento, mi ha fatto scoprire un’altra Napoli oltre quella della musica napoletana “classica”. Da questa conoscenza è partita un’esplorazione che non è mai finita e che ha sempre in me Napoli. Perché è un archetipo. Una città magmatica che sta nel mio profondo.