Tra le sue mille metamorfosi e cambiamenti la costante è l’incostanza, eppure questo caleidoscopio di stili e incarnazioni mai si depotenzia risolvendosi in una sfuggente vacuità: tutto è frutto di studio, applicazione, coerenza interne nello slalomeggiare consapevolmente da una cosa all’altra e tanta, tanta apertura mentale.
Che faccia house, lo-fi hip hop o – come in quest’ultimo capitolo – indie-pop, la sua musica è sempre e comunque un’urgenza che nasce dalla voglia di provare cose nuove, assecondando una creatività inversamente proporzionale alla disponibilità di mezzi. “Nova Luz” è il suo ultimo album, uscito per Edoné Dischi il 28 gennaio. L’abbiamo raggiunto per una bella chiacchierata, in cui abbiamo provato a tracciare un atlante che ci possa aiutare a orientarci in questo fecondo casino.
LR: Questa è la tua ennesima metamorfosi: hai cambiato pelle e stile ormai già tantissime volte. Come sei arrivato a “Nova Luz”?
MM: È stato un progetto che ha colto anche me di sorpresa. Durante il primo lockdown eravamo tutti chiusi in casa. Io stavo ospitando un mio amico che si chiama Lorenzo Iorio, in arte Pugga. Lui sta con Molto Forte, un’etichetta di Bergamo. Il fatto di stare insieme a lui, che è una persona molto produttiva e talentuosa e passa almeno il 90% del suo tempo a produrre beat e creare cose, e ha molti modi esprimersi, mi ha fatto approcciare alla chitarra.
LR: La sapevi già suonare?
MM: L’ho conosciuta quando avevo 10 anni e ho fatto un anno di lezioni. L’ho fatto malissimo, ignoravo completamente quella che era tutta la parte di teoria ed ero più interessato a cercare di riprodurre tutta una serie di cose che mi piacevano, e l’ho mollata quasi subito. Riprendendola in mano di recente ho scoperto delle possibilità praticamente infinite. Con la tecnologia di adesso anche se non sei uno strumentista riesci a inventare qualcosa, per il solo fatto di avere l’orecchio allenato ascoltando tanta musica. Sta di fatto che cercando di tirare fuori qualcosa è uscita una valanga, è stato proprio un rush fortissimo di ispirazione e ho finito tutto quanto il disco in due settimane.
LR: Le canzoni quindi sono tutte nate chitarra in mano, strimpellando.
MM: Ma in realtà neanche strimpellando, perché io non sono capace di cantare mentre suono. Spesso prima costruivo tutta la base e poi ci improvvisavo sopra il testo. Ad esempio in “Disco Merda” non avevo il testo scritto: ero lì con due amici e gli ho detto “ragazzi, posso dire qualsiasi cazzata su un beat del genere, e ve lo dimostro”. Infatti il take che senti sul disco è l’unico take che esiste di quel pezzo. Non sapevo neanch’io cosa stessi dicendo, è stato tutto molto spontaneo e ora è anche difficile ricollegare tutti i passaggi che mi hanno portato a fare il disco così.
LR: Più che indie-pop, che è un tag che si porta dietro tutta una serie di accezioni negative e stereotipate, a me sembra un disco lo-fi. Magari più per penuria di mezzi che per urgenza.
MM: Sì è lo-fi perché non potevo fare altrimenti. A un certo punto bisogna fare di necessità virtù. Io non avevo niente con cui fare le cose, ma questa cosa è stata proprio una necessità. È stato necessario fare questo disco perché mi sentivo veramente morto, e solo. Nonostante avessi accanto la persona che amo, stare chiusi in casa tutto il giorno senza poter uscire, e quando uscivi sembrava che un cecchino ti dovesse sparare da un momento all’altro, è una cosa talmente alienante che io non mi sentivo nemmeno di stare dentro me stesso. Così è nato questo disco, che è il mio più intimo ma mostra una parte che non era ancora venuta fuori, quasi fosse il mio lato oscuro della luna. Mi sono addentrato in questa giungla amazzonica piena di morti.
LR: Il concetto di morte è centrale nel disco.
MM: Quando parlo di morte principalmente parlo di cambiamento. La morte è il cambiamento di stato della vita, è passare da un corpo che c’è e vive a un corpo che non c’è più. Poi conosciamo tanti tipi di morte. C’è la morte di Dio, la morte di una voglia… La cosa che più mi ha intrippato è stata cercare il significato esoterico della parola “morte”. Capire cosa sta sotto a quello che noi chiamiamo morte e quanto valore abbia per l’essere umano in questo momento. Da quando è arrivato il coronavirus, la morte è entrata nella quotidianità di chiunque. È una cosa che non succedeva dai tempi del medioevo. Ok, i media parlano sempre di morte, ma parlandone sempre uno non sa più che cosa voglia dire. I morti non ti toccano mai. Se muore una persona a Kabul, o muoiono 500 persone in Namibia, non te ne frega nulla. Non è una cosa che vivi tu direttamente, quindi non ti tange più di tanto. Mentre avercela accanto per me è stato un cambio di prospettiva, quasi copernicano, che nessuno si aspettava.
LR: Un twist che funziona anche in retrospettiva.
MM: Assolutamente. Viene da chiedersi “Cos’era la mia vita prima? Perché ero così felice di andare a fare aperitivo e parlare di niente per ore?”. La risposta è la comunione. Quella che cercano tutti. La cercano i vivi e la cercano i morti. In realtà tutta la mia musica parla di questo, non c’è un pezzo in cui non citi la morte. Un po’ perché la temevo quando ero giovane, e un po’ perché l’ho capita un po’ meglio crescendo.
LR: “Nova Luz” è questo? Una nuova luce intesa come prospettiva?
MM: Sì. Credo di essermi ispirato a un saggio di Raymond Moody Jr che si chiama “La luce oltre la vita”. Lui è un professore di psicologia americano che racconta di tante persone che hanno avuto esperienze di pre-morte. Ha ricompilato queste storie cercando di avere più casistica possibile per trovare un perno comune. È stato un libro che mi ha molto influenzato. Quindi il titolo mi fa pensare a questo saggio, e poi anche a mia madre. “Città oceano” era una cosa su mio padre, mentre “Nova Luz” ha un tocco decisamente più materno e femminile. Infatti sono due dischi gemelli, che si parlano.
LR: A proposito di “Città oceano”, che era un disco hip hop: questa tua cosa di cambiare stile continuamente, quasi programmaticamente, non ti ha mai portato a sentirti inadeguato? Nel senso, inizi a fare qualcosa che per te è completamente nuovo ma che magari si basa su tutta una serie di codici e tradizioni assodate che tu non puoi padroneggiare perfettamente dal giorno zero.
MM: Per quanto riguarda l’hip hop mi sono subito sentito inadeguato. Adesso che sono in questa nuova fase “indie” mi sento inadeguato in ogni caso. Lavorare a “Città oceano”, con le persone che vi sono state coinvolte, mi ha dato un’energia incredibile. Sono tutte lezioni che io sto mettendo da parte. L’approccio è sempre stato ok, arrivo e facciamo questo perché mi prende bene e mi sto divertendo e posso imparare. E siamo tutti sulla stessa barca. Le persone con cui ho collaborato si sentono tanto inadeguate quanto me, in certe cose della vita. E hanno capito. Siamo in un momento storico in cui qualsiasi persona fa proprio quel che gli pare, cambia tutto velocemente. Io faccio parte di tutte le scene, dove c’è una luce ci vado.
LR: È così semplice? Ti arricchisci facendo tutto quello che ti piace?
MM: Anche quello che non mi piace. Abbiamo talmente tanti preconcetti che finiamo col perderci una marea di roba fighissima. Magari il mio obiettivo sarà di approcciarmi ancora di più alle cose che non mi piacciono, e capire perché invece piacciono a tante persone. Perché una cosa parla la lingua di tante persone, parla la lingua dei loro sogni? Questa cosa è importante. Quindi magari il prossimo step sarà quello, farò un disco che mi faccia cagare.
LR: Ci spieghi la copertina di “Nova Luz”? Non mi sembra una foto scelta a caso…
MM: Lo sfondo è nero, e contiene un quadrato. Il quadrato ha quattro lati appunto, che rimandano ai quattro elementi. A me piace molto la numerologia. Il quadrato ci stava perché rappresenta la sintesi, e questo disco come ti dicevo è una sintesi quasi hegeliana di tutto quello che ho fatto. Il quadrato ha i colori dell’arcobaleno. Quelli sono i colori dei sette chakra. All’interno del quadrato c’è la fotografia di un artista credo thailandese, l’ho rubata da Tumblr. Rappresenta dei giovani nudi, in una grotta sotterranea. Non si distinguono neanche i loro tratti facciali, sai solo che si tratta di un uomo e una donna. A destra invece c’è il fantasma di una vecchia, che è preso dal canale di uno youtuber che ha la passione per i cimiteri di notte. Lui ci va sperando di captare qualche apparizione. In questo frame c’è il fantasma di questa signora seduto davanti alla propria tomba.
LR: Che significa questa giustapposizione?
MM: Entrambe le figure – i giovani e la vecchia – non hanno coscienza di cosa sia la morte: il fantasma è bloccato dentro a questa visione della vita perpetua, ma senza mai cadere veramente nella morte. I giovani invece nella società odierna sono relegati nel sottosuolo. Sono nudi, perché la loro forza è essere sinceri nelle loro paure. Quello che volevo creare è un dialogo: c’è bisogno di creare un dialogo tra le generazioni, perché ci diamo troppo contro. Dovremmo avere semplicemente più pazienza, verso le posizioni diverse dalle nostre, e più voglia di comunicare. Che poi la paura di tutti è sempre la stessa: restare soli, a otto anni o a settanta. Quindi le due fotografie si uniscono, a dire che siamo tutti sullo stesso piano, chi sopra e chi sotto. Infatti questo disco non è un disco per persone giovani, ma per chi ha cinquanta o sessant’anni. Per chi magari ha paura di parlare con suo figlio perché non l’ha capito, perché non sa perché è così triste o arrabbiato.
LR: È una bella ambizione.
MM: Non dobbiamo porci limiti all’ambizione. Tutta la musica che faccio è per i posteri. A meno che non mi vada bene, e ovviamente ci spero di essere riconosciuto in questa vita, io mi immedesimo in chi può scoprire queste cose nascoste dopo. Come faccio io con artisti che oggi non esistono più ma che mi hanno dato tantissimo.
LR: Correggimi se sbaglio, ma tu non fai troppo per promuovere la tua musica.
MM: No. Anzitutto è uno sbatti, e mi toglie energie dalle cose che veramente contano: la musica e le canzoni. Oggigiorno siamo abituati ad avere molteplici ruoli per riuscire a campare. Io ho cominciato a fare tutto, dalle grafiche al resto, perché non avevo nessuno che me le facesse. Ma io non voglio viziare le persone, abituarle che sia sempre tutto a portata di mano. Io non voglio essere un manifesto umano, io sono un artista che fa le sue cose nella sua camera. E quando escono, ti avviso che sono uscite, te lo ricordo qualche volta, ma poi basta.