Non sapete che cosa è il kitsunetsuki? Neanche io prima di ascoltare “le metamorfosi”, il nuovo lavoro di Andrea Arnoldi e il peso del corpo. Poi sono andato su Wikipedia e ho più o meno capito. In ogni caso ce lo spiega brevemente lui in questa intervista che anticipa la presentazione live del disco domenica 8 settembre a Esterno Notte (pubblicazione lo stesso giorno con undici copertine differenti, realizzate da diversi e importanti illustratori). Sul palco, oltre a il peso del corpo, altri diciotto musicisti fra cui Roger Rota al fagotto, Laura Recanati e Daniele Nava alle voci.
“le metamorfosi” (si scrive in minuscolo ed è anche il titolo del primo singolo che trovate qui sotto) è un’opera più rotonda e pop del precedente “le cose vanno usate le persone vanno amate”. Nonostante ciò Andrea non ha perso un grammo della sua intensità e pure quella capacità tutta artigianale di scrivere brani dotati di versi – oggi quantomai asciutti e “antiletterari” – con un peso specifico significativo.
Non è un disco rivoluzionario “le metamorfosi”, ma si colloca in modo fecondo fra l’it pop oggi tanto di tendenza e il cantautorato della tradizione. Genere che Andrea dice fermamente di non ascoltare più. E questo è forse un allontanarsi per vedere le cose in modo più nitido, libero. E avviare una trasformazione.
LB - “Il tema della trasformazione passa così sottotraccia, da canzone a canzone, creando un leitmotiv” dici nella presentazione del disco. Di quale trasformazione parli?
AA - Dopo la pubblicazione e il tour de “le cose vanno usate le persone vanno amate” ho attraversato un lungo periodo di disincanto e sfiducia verso la forma canzone e le parole in generale. Mi meravigliavo di come fosse possibile la comunicazione tra gli esseri umani e mi schiacciava la consustanziale incomprensione di qualunque forma di dialogo. Il nucleo centrale de “le metamorfosi” nasce dalla frustrazione di questa scoperta. Le persone vanno amate? Quello che sei anni fa era un assioma ha cominciato a vacillare ed è pian piano crollato insieme a tutto il mio immaginario intimo e relazionale.
LB - E qui c’è stata la metamorfosi.
AA- Questo nuovo album è la diretta testimonianza dell’accettazione dell’incomunicabilità tra gli esseri umani; è incentrato sulla prima persona singolare perché descrive la metamorfosi di un individuo che riscopre il proprio nucleo vivente all’interno di ogni manifestazione del cosmo, a dispetto dell’umanità.
LB - Quindi ecco perché sempre nella presentazione dici “la creatura che canta vestirà di volta in volta la pelle degli alberi, di volpi, colombe e fiori”. Non c’è dietro un’idea di ritorno alla natura.
AA - No, non c’è nessun intento idilliaco o bucolico e nemmeno uno schierarsi con ideologie ambientaliste o antisociali. L’album descrive il lento scoprirsi e accettarsi all’interno di una metamorfosi continua con il mondo che ci vive intorno, portatore di un’essenza completamente disinteressata agli esseri umani.
LB - Il disco precedente era più dolceamaro, la voce cantava piano. Qui c’è più intensità, la voce ha toni a volte più drammatici (“Eccomi”), ma anche incantati (“La costruzione di un guscio”).
AA - Prima di incidere l’album ci è stata proposta un’anteprima ufficiale all’interno di Animavì, un festival di cinema poetico che si svolge nelle Marche. Abbiamo arrangiato le undici canzoni che lo compongono in vista di quella data, per prepararci alle registrazioni e costruire insieme il sound che lo avrebbe contraddistinto. Per la prima volta abbiamo inciso in presa diretta, suonando tutti insieme nella stessa stanza il nucleo originale dei brani. Prima di quel concerto, a luglio dell’anno scorso, tutte le canzoni venivano eseguite nello stile vocale dei dischi precedenti, quasi parlate e all’interno di un range armonico limitato. La presentazione nelle Marche ha cambiato tutto.
LB - Chiaro, ma come mai questa trasformazione?
AA - Sarebbe molto lungo e troppo personale scriverti il perché, mi limito a dire che nel periodo tra Luglio e Febbraio (mese in cui abbiamo cominciato a incidere “le metamorfosi”) ho svolto una faticosa ed enorme ricerca vocale e ho quasi completamente cambiato la struttura tonale e interpretativa delle canzoni. Per la prima volta ho scoperto che l’espressività è un valore e che lasciare che i sentimenti comandino la tua voce ha un potere salvifico e benevolo. Durante l’incisione delle parti vocali spesso la mia voce ha tremato, si è emozionata, ha lasciato trasparire paura, rabbia e dolore. Ho deciso di non reincidere nulla e di lasciarla così, portatrice di un messaggio emozionale nella forma oltre che nel contenuto.
LB - Mi sembra un disco più rotondo, più pop, quando il precedente era più cantautorale e folk.
AA - Non è una vera e propria scelta. Fa parte della mia crescita musicale. Mi rendo conto di muovermi sempre più verso un universo pop, orecchiabile e accessibile a tutti. Molte persone che hanno ascoltato in anteprima il disco mi hanno detto, mentre lavo i piatti o faccio la doccia canticchio le tue canzoni, ti rimangono in testa. Penso sia un bellissimo complimento e sono sempre più convinto che sia la direzione giusta nel mio percorso musicale. Sinceramente, ho eliminato quasi tutto il cantautorato dai miei ascolti quotidiani. Ora, in questo momento del mio percorso personale, mi sento lontanissimo da quel mondo; lo trovo noioso, sofisticato in modo ostentato e ipocrita – e sostanzialmente autoreferenziale. Ascolto molta musica strumentale e tantissime canzoni pop, che di cui mi sarei vergognato anche solo un paio di anni fa.
LB - Anche qui c’è un lavoro sugli arrangiamenti importante, un lavoro direi proprio artigianale…
AA - È un lavoro lunghissimo e molto faticoso. Ci si impiega mesi per ogni canzone, le vedi crescere come un figlio e va a finire che poi ti ci affezioni troppo e non vorresti mai lasciarle andare. La scrittura delle mie canzoni avviene durante un processo che coinvolge i principali musicisti del progetto, prima separatamente e alla fine, durante le prove, tutti assieme. Per quanto riguarda “le metamorfosi”, Andrea Manzoni (foto sopra) ha ascoltato il nucleo originario di alcune canzoni che avevo scritto negli ultimi cinque anni (chitarra e voce) e insieme abbiamo creato le parti melodiche per le seconde chitarre e alcune linee vocali. Poi sono intervenuti Leonardo Gatti per l’arrangiamento degli archi e dei fiati, Roberto Frassini Moneta al contrabbasso e Sebastiano Ruggeri alla batteria. La meraviglia di suonare con questi quattro musicisti – che sono poi il peso del corpo – risiede nel fatto che si sono create una sintonia e una complicità uniche, che si rispecchiano anche nella scrittura dei pezzi.
LB - I testi sono più asciutti e meno letterari che nel lavoro precedente. Citi come riferimenti una certa letteratura americana (Yates, Carver, Anderson e Fante).
AA - Oltre a essermi allontanato dal cantautorato, ho preso una direzione diversa rispetto alla poesia, soprattutto a quella italiana. L’album precedente era costruito sopra continui rimandi alla poesia di Fabio Pusterla, Michele Mari, Guido Ceronetti e Cesare Pavese. Ne “le metamorfosi” ho cercato di stare il più lontano possibile dalla poesia e dalla letteratura in generale. Ci sono echi di letteratura americana perché ne sono sempre stato innamorato ed è una presenza costante nelle mie letture – ma in generale, se prima cercavo la citazione e l’omaggio, durante la stesura di questo album ogni volta che scrivevo un verso che assomigliasse o richiamasse la poesia di qualche autore giravo il foglio e ricominciavo dal principio.
LB - Poi c’è il Giappone. Gli haiku, il kitsunetsuki, il metamorfismo zen. Come nasce questa influenza?
AA - Se vuoi davvero concentrare la tua ricerca poetica intorno al concetto di metamorfosi non puoi sfuggire alla dottrina zen e buddhista in generale. Sono sempre stato affascinato dagli insegnamenti dei principali maestri dello zen cinese, come Lao Tse e Confucio; la canzone “le metamorfosi” è un cerchio continuo e infinito intorno ai loro precetti. Inoltre, è stata scritta dopo la lettura de “La vegetariana”, che considero uno dei capolavori della letteratura sudcoreana. Molto Oriente in questo disco, insomma.
LB - Possiamo dire che in qualche modo è un disco kitsunetsuki?
AA - Kitsunetsuki è una parola giapponese che significa “posseduto dalla volpe”. Oltre ad aver conosciuto la disillusione verso le parole, in questi sei anni ho anche scoperto con amarezza che nei rapporti intimi e personali spesso prevale la prevaricazione e la violenza. Ho passato un lungo periodo di sottomissione a uno spirito volpe e, ti assicuro, non è stato per niente bello. Essere posseduti da una kitsune toglie il sonno e la fame e allo stesso tempo dona la capacità di sognare e parlare in un linguaggio nuovo che supera il regno umano e si avvicina a quello animale. Per questo è così difficile recidere il rapporto simbiotico con una kitsune – è come la lancia di Achille, da un lato ferisce e dall’altro guarisce.