In un momento imprecisato di un freddo giovedì sera, mi ritrovo incastrato nel cuscino sfondato di un divano all’interno della sala prove del centro sociale «Pacì Paciana». L’amplificatore di un basso sta facendo vibrare una birra posta sul tavolino alla mia sinistra mentre, di fronte a me, una ragazza parzialmente velata dal fumo della sigaretta del batterista canta senza microfono.
Faccio un passo indietro. Qualche giorno prima, sfogliando pigramente le storie di Instagram, mi imbatto nel progetto Polimono (da pronunciarsi con l’accento sulla seconda «o»). Nel video che appare sullo schermo del mio smartphone vedo un gruppo molto numeroso di persone che suona una sorta di funk psichedelico su di un palco pieno di colori e proiezioni di ogni sorta. La sensazione è quella di un’improvvisazione ragionata ma, data la durata ridotta della registrazione, non riesco a cogliere del tutto il significato dell’esibizione. Riconosco però tra i cantanti Deri, un’amica che conosco da parecchi anni. Decido quindi di scriverle per sapere di più sui Polimono e, dopo un breve scambio di battute, ottengo la possibilità di assistere alle prove del gruppo.
Ci diamo quindi appuntamento per il giovedì successivo nella sala prove. Arrivo in anticipo per riuscire a scambiare quattro chiacchiere e, dopo essermi perso almeno una ventina di volte all’interno dello stabile, accedo finalmente alla sala in cui mi attendono Deri e Dabo, il fondatore di Polimono.
Dietro le quinte del progetto
Tra i vari divani presenti, decido di sedermi sull’unico dal cuscino sfondato, ritrovandomi inglobato nell’imbottitura prima che Dabo riesca ad avvisarmi del «pericolo». Trovando la posizione meno scomoda del previsto, decido di non spostarmi. Mi rivolgo direttamente al fondatore: «che cos’è Polimono?». «Polimono è un progetto nato qualche anno fa con l’intento di creare un’esperienza musicale che al suo interno contenesse anche una forte componente visuale. Una sorta di contenitore di arti diverse unite nell’intento di creare un’unica esperienza multimediale».
Mi è capitato parecchie volte di vedere inserti visuali all’interno delle esibizioni. A dirla tutta, è una cosa che in questo periodo va piuttosto di moda nell’ambito del metal, ad esempio, ma quello che ho visto nel video era ben più di una semplice «forte componente visuale». Decido quindi di andare un pochino più a fondo nella vicenda e chiedere una spiegazione più specifica di questo punto.
Dabo sorride, come se avessi toccato un argomento particolarmente importante per lui. «In questo momento, Polimono mescola musica, animazione, danza, teatro e poesia. Io suono la chitarra, ma nasco nel mondo dell’animazione digitale. Quelle proiezioni che hai visto nel video sono delle animazioni create da me. Come sai, Deri è molto legata alla recitazione, per cui le parti in cui il canto diventava “performativo” sono anche merito suo. Nel nostro gruppo ci sono ballerini e artisti di ogni sorta, tutti arrivati da campi ed esperienze disparate».
Una parte di me non vede sinceramente l’ora di assistere alle prove ma, mancando ancora parecchio tempo all’orario stabilito, ne approfitto per provare a capire le origini di un progetto così particolare.
L’anno zero dei Polimono
Facendo qualche ricerca nei giorni precedenti alla chiacchierata, ricordo di aver trovato come prima data dei Polimono un concerto all’Ink Club di Bergamo, nel 2022. Chiedo quindi a Dabo se quella data rappresenti una sorta di «anno 0» per il progetto. «In realtà la faccenda è un po’ più complicata di così. Se dovessimo segnare un vero e proprio punto d’inizio, sarebbe un concerto da “Al Bafo” a Seriate di qualche anno fa. Quella sera sul palco c’ero io con una loop station, Federico Tallarini alle tastiere e Leo Benzinger al Cajon (una sorta di scatola in legno usata come percussione per creare una linea ritmica). Eravamo in pochi e, di conseguenza, la musica che proponevamo era piuttosto “vuota”. Così, partendo dal pubblico presente, abbiamo cominciato a reclutare amici in vista del concerto all’Ink Club che hai citato. Normalmente un gruppo si forma, trova uno stile e poi cerca una data, noi avevamo già una data e un’idea musicale, però ci mancava il gruppo».
Dalle scale si sentono dei rumori. Sono i restanti componenti dei Polimono che stanno salendo con la strumentazione. Attendo nel mio divano-trappola che Deri e Dabo finiscano con i saluti di rito, per poi cominciare a informarmi su cosa abbia spinto i singoli membri ad entrare nel gruppo. Scopro così che Deri si è praticamente autoinvitata dopo aver assistito ad un’esibizione mentre Terry, ballerina professionista con la passione per il canto, ha ricevuto l’invito ad unirsi alla formazione dopo una jam session (un particolare tipo di concerti in cui i musicisti suonano senza nessun tipo di preordine, solitamente improvvisando su accordi comuni). Bench, il batterista, ha semplicemente visto quattordici persone su di un palco e si è chiesto se non potessero diventare quindici ma è Ern, il bassista, a darmi la risposta a mio avviso di maggior impatto.
«Per quanto mi riguarda, siamo tutti in questo progetto da molto prima che prendesse forma. Per varie ragioni, ci siamo incontrati più volte alle jam session organizzate qui al Pacì Paciana o in altri luoghi e, da questo, abbiamo imparato come portare qualcosa di artisticamente nostro all’interno di un collettivo. Poi, dopo la famosa serata da “Al Bafo”, abbiamo cominciato a riunirci grazie al passaparola di Dabo e, ogni volta che qualcuno arrivava nel gruppo, veniva accettato sia umanamente sia artisticamente».
Il momento delle prove
Guardando l’ora, ci rendiamo conto che siamo arrivati al momento dell’inizio delle prove. Strappo ai ragazzi la promessa di un ultimo momento di chiacchierata durante la pausa di metà serata e comincio ad ascoltare. Pur essendo presenti meno della metà dei membri dei Polimono, sono comunque in una sala prove con sei musicisti, per cui l’aspettativa è quella di ritrovarmi assordato nel giro di qualche secondo. Rimango invece piacevolmente stupito sentendo la chitarra risuonare in un riff leggero ma molto incalzante, ripreso da un basso e una batteria. Questi strumenti, assecondando il suono, lavorano per creare un ritmo in battere adatto all’ingresso della tastiera, che dona all’insieme uno stile «anni ‘60». Le due voci di Terry e Deri, nonostante l’assenza dei microfoni (prima per problemi tecnici, poi per scelta bizzarra) completano il pezzo dando una nota psichedelica al tutto.
Per via di un’incertezza su un cambio di ritmo, scopro che il batterista stava quasi totalmente improvvisando alla ricerca di una cadenza di suo gusto e, con mio stupore, vedo gli altri componenti dare consigli su come migliorare ulteriormente la parte improvvisata. Le prove riprendono, ma non vedo l’ora di arrivare alla pausa per poter avere chiarimenti su come venga effettivamente creato un brano dei Polimono e come il collettivo riesca a gestire un progetto che fa della continua personalizzazione visiva e uditiva dello spettacolo la propria arma vincente.
Uno e molti
Espongo a Dabo i miei dubbi sulla gestione artistica del progetto. «Il nome Polimono contiene “poli” ovvero “molti”, e “mono” ovvero “uno” e, secondo me, descrive perfettamente il progetto. Ogni artista entra dando il suo contributo in base ai propri gusti personali e alle proprie esperienze e, dalla somma di queste esperienze, nasce una linea comune che caratterizza il nostro modo di essere. Certo, ovviamente cerchiamo di darci dei limiti: in questo momento stiamo seguendo le correnti funk, tribale e psichedelica sia musicalmente sia visivamente, in modo da dare un senso compiuto a ciò che facciamo, però in passato abbiamo affrontato altri generi e probabilmente in futuro cambieremo ancora».
Comprendo il ragionamento del mio interlocutore, ma mi chiedo se il dover mettere d’accordo idee artistiche differenti come la musica e le arti visuali non diventi frustrante. «Sicuramente è molto difficile far andare tutto per il verso giusto e, va detto, i tempi per creare un pezzo o un’esibizione a volte sembrano davvero lunghissimi, però simili esperienze ti danno tanto e ti fanno crescere. Vedere che delle persone possono fare ciò che più piace loro e rendersi conto che, nell’insieme, quello che ne deriva è qualcosa di positivo e ben fatto fa stare bene. Fa pensare che, forse, la stessa cosa potrebbe avvenire anche più in grande e per fini ben più importanti di una semplice esibizione».
Dopo essermi liberato dalla morsa del divano, saluto i ragazzi ed esco dalla sala prove, lasciandoli tornare alla loro musica. Il concetto di fare arte partendo dal caos creato dalle esperienze dei singoli mi ha davvero affascinato, soprattutto dopo aver testato di persona il fatto che sia una missione possibile e tangibile. Spesso diamo per scontato che una cosa, come suonare su un palco, debba essere fatta in un determinato modo e questo, inevitabilmente, crea dei paletti nella nostra mente che non ci permettono di sperimentare davvero.
In ogni caso, per quanto io abbia cercato di mostrare le sfaccettature del progetto Polimono, sono certo di non esserci riuscito del tutto. Non mi resta quindi che consigliare di provare personalmente l’esperienza di una delle performance sabato 27 gennaio da “Al Bafo” a Seriate alle 21 o domenica 28 gennaio al TTB , nell’ex Monastero del Carmine a Bergamo alle 18.