Diversi anni fa mi imbattei nell’autobiografia di Miles Davis, edita in Italia da Minimum Fax, un dettagliato racconto di tutta una vita, attraverso evoluzioni di stile, concerti e incontri. Arrivata alla fine della lettura, realizzai di aver sottolineato una sola frase: “è il modo in cui riesci a suonare qualsiasi accordo, e non potranno mai essere sbagliati, a meno che qualcuno non ci suoni qualcosa di sbagliato dietro”.
A meno che. In quelle tre parole avevo trovato la chiave di cinquecento pagine: l’ascolto. Per chi non è musicista, c’è una forma di paura associata al jazz, come fosse necessario capirlo per apprezzarlo, quando in realtà sta tutto nella più naturale forma di sensibilità, una sorta di comunicazione empatica, declinata in musica.
Il terzo appuntamento della rubrica #fuoricasa, dedicata agli artisti bergamaschi che lavorano all’estero, è con Gionata Giardina. Polistrumentista poliedrico, parte di diversi progetti tra Bergamo e Bruxelles. Nato nel 1987, Gionata inizia il suo percorso musicale da bambino, studiando pianoforte, per poi proseguire alla batteria. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, al diploma in Batteria e Percussioni Jazz al conservatorio di Brescia, aggiunge la laurea specialistica in Batteria Jazz, presso il Koninklijk Conservatorium di Bruxelles, città in cui vive da tre anni.
CD: Quali sono i tuoi primi ricordi con la musica? Insomma, come hai iniziato?
GG: I miei genitori, sebbene non siano musicisti, ma appassionati di musica classica, tenevano particolarmente al fatto che noi figli studiassimo pianoforte. Sono il più piccolo dei fratelli e grazie ai loro interessi ho poi avuto modo di scoprire diversi generi. Alle scuole medie ho iniziato a sperimentare durante le lezioni di musica, che non si tenevano in classe, ma in un’accademia vicino alla scuola. Lì scelsi di continuare con il pianoforte, ma iniziai ad interagire con altri strumenti e musicisti. Al primo anno di liceo ho deciso di iscrivermi al corso di batteria del CDpM di Bergamo. Ho iniziato a muovere i primi passi nell’ambiente, contemporaneamente sono entrato nella mia fase metal, seguendo le orme di mio fratello e, si sa, quando l’ideologia passa dai fratelli maggiori a quelli minori, diventa sempre più ortodossa e un po’ farsesca.
CD: Quali sono i tuoi ferimenti musicali?
GG: Il metal, quello dei Symphony x, dei Rhapsody e dei Death, è stato un avvio fondamentale, perché è un genere in grado di insegnare ad apprezzare la musica strumentale. Abitua all’ascolto privo di cantato, per focalizzarsi sugli assoli, educando ad un’attenzione verso l’aspetto virtuosistico e tecnico dello strumento. Un approccio simile l’ho trovato nella musica progressive, dei Genesis e degli Emerson Lake and Palmer, per dirne due, che utilizza forme molto elaborate, tempi dispari complessi.
CD: E al jazz come ci sei arrivato?
GG: Tutte le musiche sono il risultato di un momento storico, di una geografia, al jazz mi sono avvicinato in età più adulta, quindi per me si traduce in un’esperienza che trascende dall’aspetto strettamente musicale. Attualmente il Jazz mi sta dando tutto, attraverso lo studio di quell’interezza che copre sia l’aspetto musicale, sia quello storico-politico. In questo caso i miei riferimenti sono molto più legati alla tradizione, da John Coltrane a Miles Davis, mi piacciono i pianisti come Bud Powell e Monk; ma questi sono nomi che ti direbbe chiunque studi jazz, sono i capisaldi. È difficile identificare un solo artista, perché ogni artista lascia la sua traccia e più ti concentri sul cercarla, più trovi connessioni.
CD: I tuoi obiettivi come musicista?
GG: Sicuramente creare musica onesta, in grado di rappresentare quello che posso esprimere io, in quanto musicista, e che al contempo sia in grado di raggiungere l’altro. Suonare una musica accessibile, trasparente per me, nel momento in cui la produco, ma anche per chi ascolta, per creare canali di comunicazione e sentirmi tramite di esperienze. Ciò implica essere il più possibile devoto, attento e preciso, mettere molta cura in quello che faccio. L’obiettivo astratto è dimenticarmi di chi sono io, in favore della qualità, per creare una lingua comprensibile e fruibile da chiunque.
CD: Cosa ti interessa approfondire nello studio?
GG: Nell’aspetto più pratico, l’impegno si concentra sui piccoli movimenti da migliorare, nel canto, cosa che ancora non ritengo di saper fare, nell’ascolto costante. Studiare meglio, approfondire meglio, in un’ottica di laboratorio permanente; come il lavoro di un artigiano, più che di un artista. Al momento sto studiando sia batteristi della tradizione jazzistica, che più contemporanei, cercando di trovare una combinazione. Sono anche interessato alle ritmiche africane tradizionali.
CD: Perché hai scelto di trasferirti?
GG: Mi ha sempre affascinato la multiculturalità dei luoghi, è un aspetto che ho sempre ricercato anche prima di sapere che sarei diventato un musicista. Ho sempre sentito la necessità di esplorare, avventurarmi, immergermi in un contesto in cui l’elemento casuale è forte. Mi piace vivere in un luogo in cui è possibile scendere in strada senza sapere prima che cosa accadrà, cosa vedrò, lo trovo estremamente stimolante. Primariamente quindi è una ragione interiore, non strettamente legata al mio rapporto con Bergamo. La scelta di Bruxelles è stata piuttosto casuale: avevo fatto l’esame di ammissione per diversi conservatori europei e sono stato ammesso. Ho fatto domanda qui perché il livello è molto alto, per gli insegnanti e la scena musicale importante. Sicuramente tra le differenze con l’Italia, c’è un interesse e un sostegno maggiore verso la musica Jazz e tutte quelle considerate “d’arte”, non solo da parte delle istituzioni, anche il pubblico è più interessato.
CD: In quali progetti sei impegnato attualmente?
GG: In questo momento insegno, in attesa di ritornare anche a fare concerti. Durante questo periodo di stallo c’è stato modo di ampliare le connessioni, attraverso frequenti session di incontro tra musicisti. Qui è molto frequente, ogni giorno ho la possibilità di suonare con altre persone per studiare, o allenarmi. Sono impegnato in diversi progetti, con il trio Black Sun & The Flowers of Evil avevamo anche in progetto un tour in Italia, più volte rimandato per i motivi che conosciamo. Ho all’attivo diverse collaborazioni con musicisti bergamaschi in questo momento: il trio del chitarrista Marco Pasinetti, il lavoro con il cantautore gianCarlo Onorato e il tributo ai Beatles con i Revolver. Inoltre è appena uscito il disco di Martha J e il quartetto di Francesco Chebat, in cui rivisitiamo i Beatles in chiave jazzistica.
CD: Cosa ne pensi della scena musicale bergamasca?
GG: Tra Bergamo, Milano e Brescia, ci sono moltissimi musicisti davvero bravi, ma quello che manca è una scena. Non intendo le persone, ma più i luoghi fisici in cui la musica accade; per quanto riguarda il jazz, a Bergamo, sono pochi, con poco pubblico. Per generi come rock e indie, l’impressione è che ci siano luoghi di riferimento; per il jazz c’era in passato, ma ora non più.
CD: E lì?
GG: Qui in Belgio la situazione è molto diversa, ci sono diversi club, due conservatori solo a Bruxelles e la scena è molto unita. A Bergamo ci sono i musicisti, ma mancano i luoghi di aggregazione e connessione legati a questo tipo di cultura. In generale, l’educazione musicale per come è concepita in Italia, soffre. Qui esistono piccole scuole di musica finanziate dallo stato ed accessibili a tutti i cittadini, in cui si insegna ogni genere ad ogni fascia d’età, compreso il jazz ai giovanissimi; questo permette che si crei un interesse trasversale, in grado di coinvolgere tutti.