Se fosse un pittore probabilmente sarebbe un puntinista – un puntinista dell’anima, un Seurat interiore. Se fosse un cineasta sarebbe uno di quelli dai ritmi lenti, che giocano sui dettagli e arrivano piano, ma con grande intensità, per certi versi una specie di Kim Ki-duk. Se fosse uno scrittore sarebbe uno alla Saramago, un intagliatore di parole e frasi affastellate, ma con un senso che emerge improvviso. E se fosse un calciatore? Beh, in questo caso è difficile, di calciatori che arrivano piano ma intensi non ce ne sono (quelli di solito stanno in panchina). Però di calciatori che hanno eleganza, magia nei piedi eppure sobrietà, fantasia, amore per il dettaglio e soprattutto una certa attrazione per le cose non facili sì. Uno su tutti, Roberto Baggio.
Probabilmente se Samuele Bersani mi sentisse dire che lui è una sorta di Roberto Baggio della canzone d’autore mi manderebbe a quel paese. Non solo perché in qualche modo di calciatori (e quindi di cantautori) come Baggio forse non ne fanno più. Ma anche perché con tutta probabilità mi direbbe che Baggio è Baggio, ha fatto la storia del calcio mondiale, e lui è “solo” Bersani.
Fa niente se ha vinto quattro Targhe Tenco, una nel 2000 con «L’Oroscopo Speciale», per «Caramella Smog» addirittura due (al disco e alla canzone, la bellissima «Cattiva») e una l’anno scorso con «Cinema Samuele» – che è poi il disco che sta portando in tour e arriverà a Bergamo domenica 31 luglio, a chiudere «Lazzaretto Estate 2022» (biglietti qui).
Fa niente se ha portato a casa anche due Premi Lunezia, il primo nel 1998 per «Giudizi universali» al miglior testo letterario e il secondo per il valore musical-letterario del disco «Nuvola numero nove», quello di «En e Xanax» per intenderci, ovvero trasformare via metafora due psicofarmaci in una storia d’amore da lacrimoni, cosa vuoi che sia dai.
Fa niente, infine, se quelle due volte che è andato a Sanremo gli hanno dato il Premio della critica “Mia Martini” – che sì, è vero, è un po’ la pacca sulla spalla di chi ti dice «ah per esser bravo, sei bravo, però…» – nel 1999 con la magnifica «Replay» e nel 2012 con «Un pallone».
Baggio è Baggio. Oh, non scherziamo!
Samuele Bersani è fra le cose migliori che la canzone d’autore nostrana ha prodotto dagli anni Novanta in poi. L’ha scoperto Lucio Dalla, lo sanno tutti, con «Il mostro», e già lì vedevi che c’era un mondo davanti. Un mondo di parole, metafore, versi calibrati, con cui carotare piano piano la realtà e le persone. Ma anche un mondo di melodie che s’attaccano al cervello («Coccodrilli», «Giudizi Universali», «Lo scrutatore non votante») e ti inducono a pensare, ti dicono dai, ragiona. La sua non è una canzone intelligente, «che segua un filo logico importante» come cantavano Cochi e Renato, «piena di bei ragionamenti», no. Quella di Bersani è una canzone negligente. Alla banalità, alle frasi fatte, alla velocità del nostro tempo musicale dove devi esserci sempre, fa niente con che cosa.
La sua indole è in parte quella di Bartleby, lo scrivano di Melville: «Avrei preferenza di no». Ma quelli di Bersani sono no generativi, di canzoni che sono figure geometriche dagli innumerevoli lati, che se le guardi bene sono luccicanti, che se le scavi sono stratificate. Non è uno facile il riminese, classe ’70, quando vuole li sa scrivere i ritornelli radiofonici, ma ultimamente predilige la complessità, forse per reazione ai tempi in corso. Quindi, sì, non è uno facile, ma è uno necessario .
Prendete «Il tuo ricordo», il secondo e ultimo singolo da «Cinema Samuele», nonché una delle canzoni più belle di tutto il disco. Inizia così: «Il passato ci prova / Sta giocando una carta impossibile / Per tornare di moda / Non sa che il tempo è irripetibile / Il presente si trova / Motivato e deciso a non cedere / Come ha fatto finora / Senza dire una sola parola / Lo scontro è leggendario / Appena ha inizio / Uno sta zitto e l’altro fa il suo comizio / Non vuol capire di essere troppo in ritardo / Per dare lezioni a chi invece è in orario». Magari al primo ascolto non ci capite niente, ma al secondo, al terzo, l’immagine è nitida, e forse l’avete vissuta anche voi, in casa vostra (o in casa sua), proprio in questo modo. Quante volte «uno sta zitto e l’altro fa il suo comizio»; quante volte uno «non vuol capire di essere troppo in ritardo per dare lezioni a chi invece in orario». Alla fine le canzoni servono (anche) a questo. Come il teatro per gli antichi greci: a rispecchiare i nostri vizi, a volte le virtù. E servono anche a dirci che la bellezza è una forma di intelligenza, non ce n’è.
Volete un altro esempio, magari meno famoso? Nel 2006 Bersani ha pubblicato un disco che oggi non si ricorda fra i suoi migliori – come «L’Oroscopo speciale», «Caramella smog», o l’ultimo «Cinema Samuele» – ma che a mio giudizio lo è, si chiama «L’aldiquà». È un bel disco perché il nostro prende due temi difficili da mettere in una canzone e ci scrive sopra. E come ci scrive.
Un tema è il precariato e la canzone è «Sicuro precariato», una melodia malinconica, leggera, che si apre ad un’emotività anti-retorica, portando il precariato dall’essere una condizione lavorativa al diventare una sorta di alone esistenziale del quotidiano: «Ti spiacerebbe passarmi del sale? / Sul primo canale c’è un gioco impossibile / Ti spiacerebbe passarmi del sale? / Se porti giù il cane c’è il vino da prendere / Io sono un portatore sano di sicuro precariato / E anche nel privato resto in prova / E ho un incarico a termine lo so / Ma ho molta volontà, non c’è pericolo».
L’altro tema è l’uccisione di Enzo Baldoni, il giornalista e blogger italiano che fu freddato nel 2004 in circostanze non ancora del tutto chiarite in Iraq. Quando il pezzo viene pubblicato sono passati solo due anni dalla morte di Baldoni, la notizia – nel mezzo dei rapimenti e delle uccisioni di italiani in Iraq – è ancora viva, e anche tutto il profluvio di stupide e disumane polemiche che certi giornali alimentavano. Bersani scrive una canzone rabbiosa, «Occhiali rotti», ma che non traspare rabbia e diviene quasi una favola. Usa un difficilissimo tono sarcastico che ha il sapore della satira, una satira in cui è importante capire chi è il carnefice e chi la vittima: «Ho lasciato la mancia al boia per essere sicuro / Che mi staccasse la testa in una volta sola e ti assicuro / Non lo pagai sperando di fermarlo / Come mai si ritirò è un mistero e il motivo non so spiegarlo / Ma so andarmene lontano / Se nessuno mi trattiene / E tornarmene a Milano nonostante le catene».
Sarebbe facile dire che la vittima, com’è ovvio, è Baldoni, e il carnefice chi lo uccise. Ma c’è uno strato sotto il primo significato delle parole, che è una risposta leggera (in primis nella musica) quanto tagliente ai peggiori strali dei media italiani, strali che vengono cancellati da una descrizione breve e calibrata di Baldoni («per capirmi è necessaria la curiosità di Ulisse») e da un finale incantevole, quasi onirico, ma anche beffardo: «Un bacio a tutti, fate sogni belli e pochi brutti / I miei occhiali si son rotti / Ma qualcuno un giorno se li metterà / E a occhi semichiusi / Attraverserà posti distrutti / E silenziosi». Capito?
Magari lui, Samuele Bersani, quel rigore a Pasadena nella finale dei Mondiali del 1994 contro il Brasile non lo avrebbe segnato, proprio come Roberto Baggio. Oppure a noi, dalla tv, sarebbe parso che il calcio al pallone di Bersani avesse una traiettoria strana, curvilinea e zigzagante, lasciando immobile il portiere del Brasile, Taffarel, e trovando il gol. Ma poi riguardando il «Replay» quel pallone in realtà era finito in rete in un modo quasi “normale”. Molto più diretto di quanto ci era sembrato all’inizio.
«Cadono le stelle / Allora è vero / E io non so se ci sarò / Dove andrò / Non lo so se lo merito o no / Se correggerò gli effetti dei miei guasti nucleari / Se troverò il coraggio ti telefono domani / E più sarò lontano e più sarò da te / Dimenticato e muto / Come uno che non c’è / Tornerò, tornerò davvero / A sentire su di me il profumo delle mani / Di notte io farò sogni tridimensionali / Senza chiedere mai niente al mondo / Neanche a te // Senza chiedermi perché / Ti vedo dappertutto / Anche in me / Ti vedo».
(Luca Barachetti)
L’intervista
Samuele Bersani è partito in tour dalla sua Bologna, che proprio sua non è, per festeggiare trent’anni di musica e dischi e mettere in schermo le canzoni da vedere dell’ultimo album «Cinema Samuele». Le presenta dal vivo e con la band anche a Bergamo, domenica – 31 luglio – al Lazzaretto in chiusura dell’eterogenea stagione estiva organizzata dal Comune (inizio concerto ore 21.30; biglietti disponibili). La musica è sempre stata con Bersani, anche se a un certo punto è sembrato volesse far altro nella vita. «No, ad essere sincero ho sempre avuto voglia di avere a che fare con la musica e le canzoni, sin da quando ero piccolo piccolo», spiega lui. «In un mio disco c’è la registrazione di una “cosina” che mio padre, abusivamente, aveva registrato quando avevo tre o quattro anni. Da adolescente sono andato avanti con questa passione, ma è vero che a un certo punto mi era venuto il pallino della regia. È stato l’unico momento in cui ho avuto un altro desiderio. Poi non so se c’è un’altra storia su di me che narri che volevo fare altre cose».
UB: Poi sono arrivati nella sua vita «Il mostro» Dalla, Chicco e Spillo a sfrecciar via.
SB: A Dalla feci ascoltare «Il mostro», ne fu colpito. Mi disse è bellissima togli una strofa. Ed io non la cantai mai più. La storia l’ho raccontata mille volte: mi ritrovai a cantare in un concerto di Lucio e quella sera andò in scena un incantesimo. La gente applaudiva, sembrava che assorbisse la canzone mentre la cantavo. Lucio decise di far diventare quel pezzo parte integrante della scaletta. E poi effettivamente sono arrivati «Chicco e Spillo», trent’anni or sono.
UB: Le canzoni di «Cinema Samuele» finalmente vanno in schermo dal vivo, con la band che le suona. Che effetto le fanno ora che hanno avuto un certo tempo di decantazione? L’album è uscito in piena pandemia.
SB: Forse è ancora presto per dirlo. La decantazione per ora è relativa. Le canzoni in sé le ho ascoltate mille volte, le versioni dal vivo sono ancora giovani: è passato poco tempo. Per via del Covid ho cominciato a masticarle molto dopo. Se le ascolto oggi con oggettività vanno a raccontare con le antenne quello che non era ancora successo. Un esempio è l’ultima canzone che è un riassunto di quello che è diventato il linguaggio dell’anno successivo. Il disco l’ho fatto uscire a ottobre del 2020 ma l’avevo già consegnato tempo prima. Musicalmente credo che sia il disco più pieno e bello che ho fatto. Se uno mi dicesse me ne lasci uno dei tuoi, è quello che tirerei fuori dal cofano.
UB: Una favola canzone come «Il tiranno» è una metafora che ha anticipato la tragica realtà.
SB: I tiranni ci sono sempre stati, io ero bambino e mi raccontavano le leggende sui tiranni del passato ancora viventi. Penso a Pinochet. È chiaro che negli ultimi anni non avevamo avuto l’opportunità di incontrarne uno così vicino a noi, così pericoloso. Ho scritto una canzone che invece di chiamarsi «Rimbo Rambo» s’intitola «Il tiranno» perché ho annusato che quel tipo di sensazione era in avvicinamento.
UB: A proposito dell’abitudine di annusare, da qualche parte ha detto che le canzoni le fiuta nell’aria, avverte quello che gira e nascono i pezzi. È così?
SB: Più che altro arrivano dei momenti che devi prendere al volo. Lo dice anche Vasco in una canzone. Certe cose le devi scrivere sul foglio così come ti escono. Se provi a cambiare qualcosa loro perdono quella cosa che normalmente viene chiamata poesia. Non è che a tutti costi ti alzi la mattina e dici adesso scrivo una poesia. Bisogna aspettare quei lambi che rendono le cose più umane, qualche volta più meccaniche.
UB: Nelle canzoni racconta anche i tempi per quello che sono: ne «Le Abbagnale», che parla di un tema di piena attualità, in «Scorrimento verticale» dice quel che pensa dei social. Ora «Lo scrutatore non votante», che parla di contraddizioni e d’incoerenza, calza a pennello al momento che stiamo vivendo. Lei che rapporto ha con la politica?
SB: No, no, oggi ho perso quel tipo di attrazione alla politica che potevo avere per trasmissione parentale. Sono cresciuto in un contesto che non rinnegherei mai, poi ho consolidato quel tipo di interesse consapevole in età adolescenziale, ma negli ultimi anni le cose son cambiate. È diventata una cosa meccanica: vado a votare questo, per non votare quest’altro, o vado a votare quello per evitare il peggio. Oggi sono uno di quelli che è rimasto a bocca aperta una settimana fa.
UB: Nell’album «L’aldiquà» ribalta la prospettiva. È la grande forza dell’artista che può permettersi ogni cosa o è la realtà che si sta ribaltando?
SB: Non lo so, a me le cose piacciono un po’ meno se le racconti sempre dallo stesso punto di vista. Mi ha incuriosito il ribaltamento del pollo già cotto allo spiedo, mi è venuta l’idea di getto. In generale le cose mi piace raccontarle da una visione generale senza necessariamente usare i droni. Mi piace raccontare anche il dettaglio. Nelle canzoni ci sono cose che sembrano prese dal basso. La leggerezza a volte è parlare come un bambino.
UB: «Bologna» è una canzone di collera e amore. Parla della città in cui sono nate molte delle sue canzoni. Una città sua e al tempo non sua.
SB: Non mi turba nulla di quella città, continuo a viverci, ci ho preso la residenza, ho comprato lì l’unica casa della mia vita. Vi ho piantato radici. È chiaro però che non è la città in cui sono nato e non lo sarà mai. Quindi ho una visione adottiva di Bologna, non è il posto dove ho impiantato i miei primi ricordi. Mi manca il mare tutto sommato, anche se ho scritto tutte le canzoni sul mare qui in città. Bologna è materna, ma anche con la mamma si litiga, è normale.
UB: A dieci anni della morte di Lucio che cosa ha rielaborato su di lui? In un post ha scritto che le sue parole «sapevano sempre costruire orizzonti immediati».
SB: Anche dei già concreti. Le sue parole erano anche delle lame. Dei bisturi necessari per farti l’operazione e farti del bene, sanarti. Erano anche rasoi affilati quando voleva ferirti. Lucio era una persona viva, consapevole, una rarità: dormiva poco, era curioso, aveva fame di vita. La noia ara un problema per lui; la vinceva facendo mille cose».
(Ugo Bacci)