Tre (a volte quattro) musicisti incredibili, uniti per jam strumentali a cavallo tra funk, afrobeat, blues, rock e world music: ecco i Savana Funk, un gruppo che dal vivo non è proprio possibile perdersi. Il loro ultimo disco «Tindouf», del 2021, ci presenta una band matura e compatta, che fa dell’integrazione culturale la sua bandiera e del sincretismo musicale la sua forza.
Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Aldo Betto, chitarrista e fondatore del gruppo, per capire meglio che live ci aspetterà sabato, da dove nasce il suono dei Savana Funk e perché sentiamo così “nostra” una musica nata in un altro continente.
LR: Che musica vi sentiremo suonare questo sabato? «Tindouf» sta già per compiere un anno di età…
AB: Adesso infatti stiamo lavorando a un disco nuovo, che dobbiamo finire di mixare. Noi comunque siamo una band che in un certo senso ogni sera propone qualcosa di nuovo e diverso, improvvisando spesso e volentieri sul palco. Ci piace molto suonare “il momento”: i brani e la scaletta cambiano. Rispetto alle serate dell’estate scorsa, tutte focalizzate sull’ultimo disco, stavolta attingeremo anche dagli altri tre dischi precedenti.
LR: Anche qualcosa del nuovo disco?
AB: Non credo che faremo delle anticipazioni, preferiamo finire il lavoro prima. Però un brano che ci finirà l’abbiamo proprio scritto durante la nostra ultima serata all’Ink. Finito di suonare, con il club già praticamente vuoto – era rimasta circa una decina di persone – ci siamo rimessi a jammare “tra noI” ed è nata un’idea su cui poi abbiamo lavorato in seguito.
LR: Come sarà questo nuovo disco rispetto agli altri?
AB: Con «Tindouf» secondo me abbiamo messo bene a fuoco l’identità della band. Gli altri prima erano più eterogenei. Questo nuovo lavoro sarà sicuramente più “crudo”, perché più crudi sono questi tempi. È stato composto e registrato in questi ultimi due anni segnati dalla pandemia, ricchi di amarezze anche e soprattutto per chi come noi fa il musicista, oltre che resi cupi dalla cronaca quotidiana. È un disco più rabbioso, ruspante, c’è più incazzatura e abbiamo spinto di più sull’acceleratore. C’è una forte quota rock in più.
LR: «Tindouf» conteneva già dal titolo una forte vocazione umanitaria.
AB: Il suono medio-orientale e africano è molto molto presente. C’è molto nord Africa, quindi volevamo un titolo che richiamasse questa cosa anche solo geograficamente. Poi ci tengo a dire che per noi l’aspetto umanitario della fratellanza tra i popoli, delle migrazioni e dello scambio/interazione tra culture è importantissimo. Basta vedere chi siamo: Blake è nato in Inghilterra da papà ghanese e mamma italiana, Youssuf è berbero e cresciuto in Romagna, eccetera. Nella nostra musica cerchiamo di far emergere questa cosa il più possibile. Tindouf (la città dell’Algeria, ndr) è uno dei posti chiavi degli ultimi dieci/vent’anni, perché di lì transitano decine se non centinaia di migliaia di profughi, spesso purtroppo in condizioni disastrose. Eppure è sconosciuto ai più, e quindi scegliendolo come titolo nel nostro piccolo volevamo anche magari stimolare una ricerca.
LR: Una musica come la vostra, per lo più prettamente strumentale, può essere portatrice di un messaggio politico anche senza il mezzo delle parole? Voi vi sentite politicizzati?
AB: È una cosa che abbiamo ben chiara sin dalla nostra identità: come siamo costruiti è già un esempio di integrazione culturale. Anche tanti titoli di pezzi contenuti in «Tindouf» hanno richiami storico-politici: «Fuga da Gorèe» ad esempio, Gorèe (in Senegal, ndr) era l’isola dove venivano stipati gli schiavi prima di affrontare la traversata oceanica per le Americhe; «The Invisible Man» è uno dei libri di riferimento della cultura afroamericana. Durante il nostro percorso abbiamo anche fatto delle scelte molto chiare. Ad esempio due anni fa, in piena campagna elettorale avevamo un live in un club, fissato da tempo, e il giorno stesso ci sono venuti ad avvisare che il nostro concerto avrebbe subito un’interruzione a metà per quella che secondo gli organizzatori avrebbe dovuto essere la presentazione di un libro. Invece era un comizio di un rappresentante della Lega, e noi non ci siamo prestati a questa cosa.
LR: Mi riesce difficile non immaginare una certa distanza tra un vostro ascoltatore tipo e un elettore leghista, per tutti i temi di integrazione culturale di cui vi fate portatori.
AB: In realtà non sono del tutto d’accordo. Questo secondo me è il periodo dei grandi cortocircuiti. Le persone a volte ti dicono di appartenere a dei contenitori, ma poi non si comportano in maniera molto coerente. Io vengo dal Veneto, in tanti comuni la Lega ha percentuali altissime, eppure è un pubblico che mi è sempre venuto a sentire. Il problema sono sempre gli estremisti, ma non è che bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Di sicuro c’è stato un momento storico, con i porti chiusi, in cui il nostro giudizio è stato molto duro, perché vedere le persone morire in mare senza aiuto è stata una tragedia di cui secondo me in tanti non hanno nemmeno compreso la reale portata. Però non è che io ce l’abbia su con un partito piuttosto che un altro. La mia vocazione politica è qualcosa di personale; come band abbiamo un ideale che non è “contro” nessuno, ma semmai è per l’integrazione. Vogliamo stimolare la conoscenza, e portare visibilità a temi che spesso possono sfuggire: «cos’è Tindouf?», beh vacci a guardare. «Ci sono dei profughi», benissimo: perché ci sono dei profughi?
LR: Come hai incontrato la musica africana?
AB: Suonando negli Stati Uniti soprattutto, ho avuto modo di approfondire tantissime cose: la musica caraibica, con il reggae, lo ska, il calypso, la musica cubana, eccetera, e quella africana; quella del Congo, il soukus, l’afrobeat. Negli anni mi sono specializzato in tutto quello che viene dalla madre Africa, a partire dal blues. Io da ragazzo ho iniziato proprio con il blues, ed esplorare la musica africana mi ha permesso di capire meglio anche quello.
LR: Sono retaggi musicali che comunque fanno parte anche del nostro DNA culturale. Penso a Napoli o alla Sicilia, terre con forti impronte africane a livello musicale.
AB: Più che africano penso abbia più senso parlare di Mediterraneo. A me affascina soprattutto la musica africana inteso come desertica o del centro Africa. Però il nostro bacino mediterraneo è veramente interessante. Prendi Alan Lomax: era un etnomusicologo che girava per gli Stati Uniti con un registratore, mettendo su nastro i bluesman delle campagne americane. Dando importanza identitaria agli afroamericani Lomax fu accusato di maccartismo e dovette abbandonare gli USA: venne anche in Italia, dove registrò moltissime cose in quasi tutte le regioni italiane. Scoprì che la musica napoletana e siciliana, quella dei pescatori, hanno questi intervalli detti “microtonali” tipici del bacino mediterraneo, come se gli arabi ci avessero influenzato, e poi noi avessimo influenzato loro.
LR: Questa musica mediterranea quanto è distante da quella sub-sahariana? Perché spesso si tratta di musica africana come se si trattasse di un unico gran calderone, ma parliamo di un continente gigantesco.
AB: Se dividiamo la musica nei suoi tre elementi costituenti (ritmo, melodia e armonia), sicuramente nel bacino mediterraneo la raffinatezza armonica è molto più sviluppata. Il Mediterraneo è un punto di incontro tra l’Europa e l’Africa, e vi si trovano musiche che molto semplicemente utilizzano molti più accordi di quella africana. A sua volta la musica africana è molto più legata (e complessa) rispetto a tutto ciò che è ritmo.
LR: Voi siete a vostra volta una sorta di trait d’union tra queste due anime. Spesso nei vostri pezzi si sentono ritmi afrobeat (Fela Kuti – per dire – era nigeriano, quindi parliamo di musiche sub-sahariane) su cui poggiano melodie dal gusto decisamente mediterraneo.
AB: Credo che tu abbia centrato perfettamente il punto: noi prendiamo delle cose africane (il nostro batterista è africano e quando suona vengono fuori gli strumenti della sua terra) ma imbastardiamo tutto quanto. Blake è inglese e nella nostra musica c’è sicuramente una quota anche di quello, dai Beatles ai Kula Shaker passando per i Radiohead. Poi c’è molto blues, nel senso più ampio del termine: blues è Muddy Waters ma blues sono anche i Black Keys. Blues è – nella mia testa – anche Alì Farka Touré. La nostra musica unisce tutti questi mondi.
LR: Avete partecipato anche al Jova Beach Party.
AB: A quattro appuntamenti, sì.
LR: Voi siete quello suonate: misti come origini, stili ed esiti. Il rischio della world music occidentale è sempre quello di scadere nel turismo (e nell’appropriazione) culturale: voler fare una musica – in questo caso africana – perché è esotica e gli piace, ma fare un po’ l’effetto “cartolina”. Per voi questa cosa non vale, e la vostra musica suona naturale perché avete nel DNA quello che suonate. Jovanotti credo si collochi sul fronte opposto.
AB: Domanda molto interessante, anche se non sono d’accordo sulle conclusioni. Tony Allen in RAI l’ha portato lui.
LR: Certo, ha portato in Italia anche i Public Enemy e i Run DMC. Non parlo tanto di quello che ha fatto, quanto di quello che fa suo senza – forse - averne il diritto.
AB: Io credo che Lorenzo sia una persona che a differenza di tante altre abbia ben capito dove sono i suoi limiti, e che abbia passato una vita intera a cercare di superarli. Per questo si è sempre affidato a grandissimi strumentisti. Lui è una persona musicalmente molto curiosa: conosce tantissima musica anche molto particolare. Poi la filtra attraverso la sua ottica che, soprattutto negli ultimi quindici anni, è pop. Può avere influenze che vanno dalla world music all’elettronica, ma la lente è pop. Quindi è chiaro che a un orecchio attento può risultare una cosa un po’ superficiale. Ma sicuramente non fa il purista, anche perché purista non è. Quello che lui può fare è portare Tony Allen in Italia. Perché lui ha deciso di portare la sua roba in radio e – quando può – ridare indietro a quel mondo da cui pesca dandogli il massimo della visibilità. Chi glielo faceva fare di invitare i Savana Funk al suo Jova Beach Party, che non ci conosceva nessuno? Perché ha voglia di rischiare, di buttare sul palco roba che la gente non conosce. Poteva chiamare mille ospiti più consolidati di noi. È riconoscente verso certi mondi. Quindi per me è una cosa figa, fa il paio con i Rolling Stones o Eric Clapton dei vecchi tempi, che si portavano i bluesman neri sul palco per farli conoscere al loro pubblico che sennò altrimenti non ci arrivava.