Un autentico patrimonio nazionale: ecco cosa sono i film di genere. Polizieschi, gialli all’italiana, spaghetti western, horror argentiani e gotici padani. Ce ne stiamo (ri)accorgendo anche in ambito più mainstream negli ultimi anni, grazie a nomi come Gabriele Mainetti («Lo Chiamavano Jeeg Robot» e l’ultimo «Freaks Out») e film tipo «Diabolik» dei Manetti Bros (che infatti ha un antecedente in Mario Bava). Pura e semplice exploitation, ed è qualcosa che noi italiani siamo sempre riusciti a fare maledettamente bene, citofonare a un morboso cinefilo come Tarantino per eventuali conferme.
Non solo campanilismo però: all’insegna dell’exploitation il ponte ideale è quello che collega l’Italia al Giappone, da Autori (maiuscola dovuta) come Kurosawa a – soprattutto – infiniti kung-fu e yakuza movies (Takeshi Kitano è uno dei nomi principali da spendere), passando magari per nomi di culto anche americani come Russ Meyer. È il campionato di serie B (ma spesso anche Z) del cinema, film tanto imperefetti – spesso proprio bruttarelli – quanto sinceri, giocosi, orgogliosi della propria artigianalità e grazie a tutto questo dotati di un fascino che spesso manca completamente a produzioni ben più blasonate e imponenti.
Un grande, ulteriore contributo alla popolarità e al conseguente recupero di questi guilty pleasures cinematografici è stata data dalla musica hip hop. All’interno di un genere che fa del campionamento (sampling in gergo) la sua primigenia raison d’etre, la pratica del cosiddetto crate digging è sempre centrale, ovvero il setacciare quintalate di vecchi vinili per lo più sconosciuti e dimenticati alla ricerca di qualche scampolo da prendere e riutilizzare nella creazione di nuovi beats. Facile capire come spesso i produttori hip hop trovassero proprio nelle colonne sonore dei film di exploitation qualche inaspettato diamante grezzo sonoro con cui arricchire i propri lavori.
Ecco allora che in particolare la scena newyorkese, da sempre più ricettiva e prolifica in questo genere di cose, ha visto il proliferare di tutta una serie di progetti in cui il legame tra hip hop e cinema di serie B era centrale: il caso più famoso è rappresentato The RZA e il suo Wu-Tang Clan, in cui i kung-fu movies dall’estremo Oriente venivano presi e attualizzati nella Grande Mela per speziare racconti di criminalità urbana e street-life da ghetto, ma sarebbe riduttivo fermarsi qui. Per dirne una: un compianto genio come MF Doom tra i suoi innumerevoli (e gustosissimi) progetti collaterali annoverava King Geedorah, che prendeva il nome – e parecchi sample – dai vecchi film nipponici di «Godzilla».
Spesso e volentieri il rapporto si è invertito, con dischi hip hop che sono diventati la base per esperimenti visivi e filmici. Basti citare il massimalismo del Kanye West di «My Beautiful Twisted Fantasy» (con il kitsch-issimo cortometraggio «Runaway»), passando per The Weeknd o il Travis Scott di «Birds in the Trap». Dalle nostre parti, c’è chi è partito dalla vivisezione degli Autechre per creare mondi 3D sempre nuovi a ogni live (gli Uochi Toki), oppure si è dedicato a creare musica che partisse dall’amore per i film per raccontare un film immaginario.
È il caso dei Durty Geeks, gruppo made in Bergamo composto da Federico “Piezo” Pezzotta al piano elettrico, tastiere e synth, Francesco “Frenz” Crovetto, già componente e batterista degli OTU, Gregorio “Greg” Conti, bassista parte anche di Verbal e Bangarang! ed Edoardo Fumagalli, a.k.a. DJ Edo, al giradischi e ai campionamenti. Quest’anno è uscito il loro primo album in LP «Also Starring», una raccolta di brani strumentali e skits che traccia un viaggio nella filmografia di serie B di cui abbiamo parlato. In vista del release party che si terrà sabato 14 maggio all’Ink Club (opening: Gogg Doppia G; aftershow: LVCA, DJ TSURA, Sabotage), abbiamo intervistato DJ Edo per capire meglio origini e riferimenti del gruppo.
LR: Il progetto Durty Geeks nasce nell’ormai lontano 2013: come vi siete conosciuti e da dove è arrivata la spinta per suonare insieme?
EF: Il primo contatto è stato tra me (giradischi e campioni) e Pezzo (tastiere). Un comune spirito geek ha prodotto in breve tempo il primo EP del 2014 «We Gun Make It». L’idea di proporlo dal vivo ha presto richiesto la presenza di un bassista, Greg, per dare organicità al progetto. Poi si sa che bassista chiama batterista e così è stato: Greg ha chiamato Frenz, ed eccoci qui.
LR: «Also Starring» è il vostro LP di esordio: come mai è trascorso così tanto tempo prima di arrivare a un’uscita “estesa”?
EF: Ci siamo un po’ complicati la vita registrandolo due volte, poi una pandemia nota a tutti ha bloccato i nostri programmi, quindi ne abbiamo rimandato l’uscita. Quando i tempi sono sembrati maturi, ne abbiamo deciso l’uscita con i ragazzi di Irma Records.
LR: La forte ispirazione cinematografica si presenta da subito come la cifra stilistica fondante del progetto: a che immaginario filmico guardate per i vostri pezzi?
EF: Ci siamo molto divertiti a esplorare i temi dell’ italo-crime , della blaxploitation , del wuxia , dell’ hard-boiled , persino di certo cinema francese. Volevamo fare una panoramica su questi temi, provando a creare a nostra volta un piccolo film in musica, ispirato proprio a generi cosiddetti “secondari”. È il motivo che ci ha spinto ad aggiungere un abstract alla copertina: “Dopo morte certa, un uomo senza virtù s’imbatte in una giovane assassina e nella furia cieca di un vecchio nemico”. Anche i brani sono stati disposti nel tentativo di raccontare questa ipotetica storia, come fossero una sceneggiatura.
LR: C’è qualche compositore di colonne sonore che vi ha ispirato particolarmente?
EF: Avete tempo? Qui la lista si fa lunga: Nicolai, Piccioni, Bacalov, Trovajoli, Gainsbourg, ovviamente Morricone, ma anche Danny Elfman, Don Davis… persino Umberto Smaila, che ci crediate o no.
LR: Dicci di più a proposito di Umbertone…
EF: Ha scritto alcune colonne sonore balorde, tipo quella de «La belva col mitra», che è a suo modo un capolavoro ma rimane ovviamente un po’ offuscata dal resto del personaggio.
LR: Tre film che possono sintetizzare il progetto Durty Geeks:
EF: «I sette samurai» perché collegano Giappone e Italia, Kurosawa e Leone, «Tre manifesti a Ebbing, Missouri» per la caparbietà della protagonista, «La dama rossa uccide sette volte» perché ha ispirato non solo un brano del disco ma anche uno dei video.
LR: Facciamo il gioco contrario: tre dischi che potrebbero sonorizzare un ipotetico film girato da voi.
EF: «Spirit of Eden» dei Talk Talk, «You’re dead!» di Flying Lotus, «Good kid m.A.A.d. city» di Kendrick Lamar.
LR: La musica hip hop, che è l’ambiente di origine per molti di voi, ha spesso avuto vocazioni cinefile: dall’exploitation del Wu-Tang Clan fino ad arrivare anche a cose più patinate tipo «Runaway» di Kanye West. Come si rapporta l’amore per l’hip hop nel mondo Durty Geeks?
EF: L’hip hop rappresenta un po’ la matrice di quello che facciamo: le modalità produttive tra campionatori e sintetizzatori, l’amore viscerale per le timbriche e le ritmiche particolari, la citazione e l’incorporazione di altra musica come tributo e celebrazione. Per alcuni di noi quella dell’hip hop è una passione nata tanti anni fa e che ancora rimane nello spirito di quello che facciamo.
LR: A proposito di hip hop: quanto c’è di suonato e quanto invece di campionato nel disco?
EF: È un’importante commistione: c’è molto di entrambi. Il proposito che ci siamo dati per il futuro è quello di snellire la scrittura.
LR: Che tipo di live possiamo aspettarci per questo sabato? Avete previsto anche una controparte visiva per cementare il legame tra la vostra musica e il cinema?
EF: Speriamo di aver costruito un live che sia un po’ un viaggio nei differenti generi del cinema. Speriamo che la gente, chiudendo gli occhi, possa ritrovarsi in un film di Dario Argento in un momento e qualche momento dopo nel mezzo di una battaglia a colpi di spada in un film wuxia, e dopo ancora in una sparatoria blaxploitation. Per quello che riguarda le proiezioni, il lavoro degli amici Davide Zetti, di Studio Temp e di Marco Riva ci aiuterà a ricreare le atmosfere del disco.