Non c’è nulla di meglio di qualche giorno di immobilismo forzato per recuperare qualche bel disco uscito in questi primi mesi di un 2020 che si annuncia carico di release importanti. E se anche la musica live subisce lo stop del decreto governativo, proviamo a pensare che non tutto il male viene per nuocere: cd, vinili e tutto il mare magnum delle piattaforme digitali vi aspettano.
Qui sotto trovate 5 dischi di quest’anno belli davvero. Li abbiamo scelti secondo generi e mood differenti, per venire incontro a (quasi) tutti i gusti. Da chi vuole cavalcare – con un po’ di cinismo – certi sentori apocalittici che si percepiscono in giro a chi invece preferisce ascoltare qualcosa che lo aiuti a rilassarsi e a uscire dalla cappa di negatività che ha avvolto gli ultimi giorni.
OvO – “Miasma”
Se la fine del mondo fosse veramente arrivata, forse nessuno potrebbe sonorizzarla meglio degli OvO. La creatura di Stefania Pedretti e Bruno Dorella (Ronin, Bachi da Pietra) festeggia proprio nel 2020 vent’anni di casino e distruzione: black metal, doom, industrial, noise, e quanto più di marcio e inquietante possa esistere in musica, loro l’hanno fatto. Un suono che è la perfetta colonna sonora per rituali esoterici, cacofonie distruttive e racconti horror lovecraftiani.
Questo nuovo “Miasma” è la “solita” pestilenza sonora cui ci hanno abituati (se mai ci si potrà abituare alla loro truce violenza): una sulfurea aura da apocalissi in corso prestata a incubi metallici, soffocanti clangori industrial e ansiogene cavalcate di disturbante grindcore. Insomma, se ancora non sentiamo l’ansia da Apocalisse abbastanza vicina, c’è l’urlo della bestia OvO che può convincerci.
Apocalypse Lounge – “Apocalypse Lounge”
Se invece non vogliamo rinunciare ad essere chic e sul pezzo, eleganti e tutto sommato sereni nell’affrontare questi tempi difficili, ecco il disco che fa per noi: Riccardo Orlandi (fondatore dell’etichetta Tannen Records) ha appena creato il progetto Apocalypse Lounge, tutto un programma già dal nome. L’idea è di raccontare la fine del mondo in atto con piglio da cocktail bar, costruendo una colonna sonora da apocalisse spensierata per osservare il mondo che si disfa con un drink in mano.
È principalmente la voce di Giovanni Succi (Madrigali Magri, Bachi da Pietra) a guidarci in questo tour distopico ma sereno, che scrive quasi tutti i testi e li declama con il suo inconfondibile timbro sepolcrale. Si alternano frammenti di rap a spoken word recitati, con l’angelica voce femminile di Francesca Amati (Amycanbe, Comaneci) a fungere da speculare contraltare. Parlano di paradossi temporali (“Time Out”) e antifascismo ragionato (“Happy 1942”), e chi più ne ha più ne metta.
Le basi, firmate da Orlandi con una nutritissima schiera di collaboratori, sembrano uscite dalla soundtrack di un film noir degli anni Settanta. Non ci si limita però alla sola maniera, spaziando tra visioni oniriche e parentesi narcolettiche, spezie orientaleggianti e perfino bastardi jazz/hip hop (“Funky Doom” sonnecchia oziosa tra atmosfere da poliziesco all’italiana e gli scratch di Dj Argento, con un limpido sax soprano a stagliarsi su tutto).
Handshake – “An Ice Cream Man on the Moon”
Forse però è meglio gestire questi giorni aiutandoci con un po’ di vecchio e sano rock & roll. La migliore medicina per l’anima potrebbe essere un sempreverde tridente chitarra-basso-batteria, capace di graffiare il giusto ma magari anche di portarci in cielo con qualche sognante viaggio psichedelico.
Gli Handshake sono dei giovani da Firenze pieni di belle speranze, e anche di belle idee sentendo il loro nuovo disco. Cantano in inglese e suonano divinamente, il loro rock è un contagioso inno alla citazione promiscua: pesca un po’ dappertutto rubacchiando qua e là, ma lo fa con grande stile e finezza di scrittura.
Ci si può divertire a cogliere i riferimenti tra una schitarrata e l’altra: vedi “Lasagna”, che parte con un riffone panzer che sembra rubato ai Black Sabbath, per poi aprirsi in una soffice psichedelia che guarda dichiaratamente ai Pink Floyd (e in effetti parlando di Moon e dintorni, il richiamo ci sta tutto).
Oppure ci si può semplicemente sedere comodi in poltrona sparandosi a tutto volume uno dei migliori dischi rock italiani di questi anni, stupendosi di volta in volta per le soluzioni inventate. Perché fidatevi, intrecciare così tante suggestioni diverse anche all’interno dello stesso brano non è affatto semplice. Loro lo fanno davvero bene.
Caribou – “Suddenly”
Ma se vogliamo atmosfere ancora più sognanti, intime e cullanti, magari con qualche melodia pop a rendere più canticchiabile e godibile il tutto, ci ha pensato Caribou a darci il disco perfetto. “Suddenly” può regalare gioie improvvise come il suo titolo: un loop particolarmente intrigante che fa capolino in modo inaspettato e un ritornello che compare a sorpresa quando pensavi che il pezzo si stesse incartando su sé stesso.
È un’elettronica gentile e positiva, calda e avvolgente, permeata dall’umanità del tocco di Caribou anziché dalla freddezza delle macchine spesso associata al genere. L’album è pieno di sospensioni, incertezze, ripensamenti, vuoti momentanei: un’incostanza quasi paradossale se si pensa che la scaletta è composta quasi interamente da pezzi sotto i tre minuti di durata.
Eppure è proprio in questa umana erroneità, nelle pieghe di questa scrittura così ingarbugliata ma ricchissima, che si nasconde la meraviglia. È il disco di un (potenzialmente) grande autore pop che si chiude nella sua cameretta e pesca un po’ dall’r&b e un po’ dall’hip hop, che mugugna un ritornello e strimpella tre note su un vecchio synth.
Probabilmente non è il prodotto più alla moda che possiamo trovare, ma nelle sue imperfezioni si cela una grandezza senza tempo. In queste sere senza tante occasioni per uscire, accoccolarsi sul divano e meravigliarsi davanti a pezzi come la splendida “Like I Loved You” - semplicemente un loop di drum machine, qualche chitarra e una melodia incantevole - può davvero ridarci un po’ di serenità.
Niklas Paschburg – “Svalbard”
Le Svalbard sono un gruppo di isole norvegesi, le terre abitate più a nord del pianeta. Qui è stata creata la più grande banca dei semi mondiale, per prevenire l’estinzione di piante in seguito al possibile verificarsi di catastrofi planetarie. Con l’allarme del riscaldamento globale sempre più tonante, questo arcipelago rappresenta un ultimo avamposto dall’enorme valore simbolico nella lotta dell’uomo contro i danni da lui stesso causati.
E proprio qui si è ritirato il pianista tedesco Niklas Paschburg per comporre il suo nuovo disco, che prende il nome da queste isole incontaminate. L’album ci guida per mano tra i paesaggi ghiacciati e selvaggi delle Svalbard, in mezzo a orsi polari e distese brulle, acque gelide e infiniti stormi di uccelli.
È una raccolta di scorci musicali che rendono alla perfezione la ricca desolazione di queste terre sperdute, costruendo atmosfere di contemplazione quasi sacrale grazie a un minimalismo pianistico che centellina le note con grande parsimonia. L’alternanza di pieni e di vuoti, diversi crescendo sapientemente costruiti, qualche battito elettronico inserito qua e là, tra trance e qualche inaspettato episodio industrial (“Arctic Teal”).
I virtuosismi presenti si disvelano in sordina, magnifici ma contriti, richiamando l’arca di Noè vegetale incastonata tra i ghiacci che li ha ispirati.
Sembra quasi di vederle queste isole, monumento vivente ad una speranza e ad una positività che non devono mai abbandonarci.