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Dante crudo a colazione con il «baco» Giovanni Succi

Intervista. Di scena all’Edoné il prossimo venerdì 21 ottobre lo spettacolo della voce dei Bachi da Pietra su Dante e «L’arte del selfie nel medioevo». Le «Rime Petrose» del Toscano, le canzoni dei Bachi e quelle da solista. Primo appuntamento della stagione di hashtag. «Spesso Dante viene preso per una sorta di catechista, e invece è stato un personaggio radicalmente anti-clericale»

Lettura 6 min.
Giovanni Succi

Giovanni Succi è la mente, la penna, la voce e la chitarra dei Bachi da Pietra e dei Madrigali Magri, oltre che dei suoi lavori da solista. Se non conoscete nessuno dei nomi in questione, oltre a consigliarvi caldamente di recuperarveli, potremmo sintetizzare la questione dicendo – senza timore di offendere nessuno – che si tratta di uno degli intellettuali più antintellettuali e sinceri del nostro panorama musicale (e non solo).

Potremo vederlo esibirsi il prossimo venerdì 21 ottobre all’Edoné con il suo spettacolo «L’arte del selfie nel Medioevo» (ingresso gratuito), una serata su Dante e le sue «Rime Petrose» tra letteratura, musica e improvvisazione. Se il legame tra Succi (declinato in tutti i suoi progetti) e la letteratura è sempre stato fondante, tra un bacino mandato a Pavese e uno a Bukowski, vederlo alle prese con Dante rappresenta un ponte di sicuro fascino. Ne abbiamo parlato direttamente con lui, per capire cosa aspettarci dalla serata di venerdì e soprattutto perché è importante (ri)scoprire Dante partendo da un suo lavoro sconosciuto ai più («di nicchia» direbbe lui).

LR: Perché uno spettacolo proprio su Dante? Come nasce il tuo rapporto con lui?

GS: Il mio rapporto con Dante nasce da lontano, come per chiunque sui banchi di scuola. Ho avuto la fortuna di non odiarlo subito: la cosa più normale che fa la scuola è farti odiare le cose che ti presente. A me invece Dante è piaciuto da subito, poi ho fatto lettere all’università e con Storia della Lingua non puoi che ripartire proprio da lui.

LR: Che missione ti sei dato?

GS: Una molto umile: mostrare a tutti che Dante non è quella cosa brutta e antipatica come viene presentata, ma una delle più geniali menti nate al mondo. Vale la pena incontrarlo, sentire cos’ha ancora da dirci, come si è sviluppato il suo percorso e attraverso quali vicissitudini. Perché si tratta del primo vero «Io» della storia della letteratura occidentale.

LR: Con primo «Io» intendi la prima figura autoriale auto-postasi al centro della storia?

GS: Sì, il primo signor “nessuno” che ha detto: «so di non essere nessuno, però mi è successo questo».

LR: Come mai hai scelto di centrare il tuo spettacolo sulle «Rime Petrose», quindi una parte di Dante sconosciuta ai più?

GS: Si tratta proprio di presentare un autore che tutti danno per scontato di conoscere, ma che in realtà la maggior parte delle persone non conosce o di cui conosce lo stereotipo, la figurina, la maschera di carnevale. Ho scelto di rappresentarlo in un momento della sua vita in cui si colloca esattamente all’opposto di tutti gli stereotipi che solitamente lo accompagnano. Questo risulta molto interessante e accalappia immediatamente l’attenzione di chiunque, perché risulta facile dire «ecco, non me lo immaginavo». È come la pastasciutta: se te la cucinano scotta e che fa schifo dici che non ti piace, ma se te la cucina una brava massaia bolognese ne cogli il valore. Dante è qualcosa che come tutto può essere presentato bene oppure male: io cerco di presentarlo bene, è una missione che mi diverte. Per quel che mi è possibile cerco di farne sentire una voce più autentica di quella che tutti hanno sentito a scuola.

LR: Il rifiuto metodico dello stilnovo procede anche attraverso una concezione radicalmente carnale dell’amore nelle rime petrose.

GS: La grandezza di Dante sta anche nella sperimentazione assoluta, sempre. Lui è al contempo sia il più grande stilnovista sia il più grande antistilnovista di sempre. È anche il primo che ha inventato un libro su di sé, e l’ha fatto per ben due volte: la prima con la «Vita Nova», la seconda in un’opera grande, talmente grande da essere diventato una cattedrale che ancora oggi veneriamo, ovvero la «Commedia». Ma la veneriamo non perché Dante avesse l’imprimatur di qualcuno, ma per la quantità di umanità che ci trasporta da quel secolo al nostro. Il che non è scontato e infatti non avviene con tutti gli autori. Quindi cerco di mettere in luce anche questo aspetto, di Dante come artista sperimentale. Ce ne sono stati altri prima, ad esempio Arnaut Daniel (di cui Dante è un grande fan). Ma Dante lo ha superato.

LR: Da che punto di vista intendiamo la sperimentazione?

GS: Sotto tutti i punti di vista. Quello che Dante fa nel suo periodo è esattamente l’opposto di quel che la gente si aspetterebbe da uno come lui in quel momento. La cultura alta del tempo è esclusivamente in latino: un punto che a volte tocco nello spettacolo è proprio di quando gli consigliavano di scriverla in latino questa Commedia. Ci sono dei frammenti di tentativi in latino, ma si interrompono dopo pochi versi. Come se si fosse reso conto: «ma chi cazzo la legge questa roba qua se la scrivo in latino?». Non sarebbe mai stata un’opera “pop”, e lui invece cercava di fare una cosa che viaggiasse. E alla fine ci è a riuscito talmente tanto che viaggia ancora oggi. Certo, oggi la lingua è cambiata e invecchiata e quindi noi abbiamo bisogno di chiavi di lettura per addentrarci in quella «selva oscura», però bisogna riconoscere queste cose. Spesso Dante viene preso per una sorta di catechista, e invece è stato un personaggio radicalmente anti-clericale. Insomma c’è tutta una serie di stereotipi che ci rendono Dante antipatico, ma sono smontabili e dimostrabili non sulla base della mia opinione ma di studi storici e letterari.

LR: Questa radicale differenza di stile rispetto ai versi più aulici della Commedia rende le «Rime Petrose» più fresche e potabili per un lettore moderno? Forse meno bisognose di parafrasi per risultare comprensibili?

GS: Ci andrei cauto: tutto il linguaggio dantesco è fraintendibile. Ti sembra di capirlo ma in realtà capisci una cosa diversa, perché nel frattempo le parole hanno cambiato significato. Ad esempio parole come «gentile», «onesto», o tantissime altre: tu pensi di sapere cosa significano, ma per Dante e per la lingua del tempo vogliono dire un’altra cosa. Le «Rime Petrose» sono il banco di prova di Dante per andare oltre lo stilnovismo, e senza di loro lo stacco tra i componimenti della «Vita Nova» e quelli della «Commedia» sarebbe enorme. Verrebbe da chiedersi se abbia fatto un viaggio nel tempo. Invece no, ha lavorato sulla sperimentazione, sul linguaggio e sulla possibilità di usare il linguaggio volgare per raccontare cose che andassero oltre lo stereotipo della rappresentazione dell’amore cortese.

LR: Lo sperimentalismo dantesco procede anche da un punto di vista fonetico.

GS: Nelle «Rime Petrose» c’è la ricerca di suoni aspri invece che dolce, sono dedicate a una anti-Beatrice, quindi un personaggio che non beatifica ma anzi ossessiona. Insomma dappertutto c’è la negazione dello stilnovo, un nome tra l’altro inventato dallo stesso Dante, che in questo senso è anche uno dei più grandi “copywriter” dell’umanità. Ha inventato una serie di termini che ancora oggi usiamo.

LR: Come mai hai deciso di intitolare il tuo spettacolo «L’arte del selfie nel Medioevo»?

GS: Anzitutto è un titolo paraculo e acchiappone: se l’avessi intitolato «Le rime petrose di Dante» la gente se ne stava anche a casa. In secondo luogo, Dante ha tantissimi primati, ma soprattutto è il primo ad auto-rappresentare sé stesso in un’opera letteraria senza averne alcun titolo. Nel medioevo la rappresentazione dei personaggi era una sorta di eternazione, riservata solo agli eroi, i dei, i re e i papi. Dante invece è il primo ad osare tanto, portando una storia che sapeva avrebbe catturato l’attenzione di tutti e capendo che si può raccontare tutto senza necessariamente avere il beneplacito di chicchessia.

LR: Come si svolge lo spettacolo?

GS: Anzitutto voglio rassicurare il pubblico: non leggo NIENTE. Quello che sentirete di Dante è detto a memoria. Lo spettacolo è portato senza alcun tipo di sovrastruttura o impalcatura, proprio perché voglio riportare Dante a essere un uomo e lo faccio con gli strumenti che dell’umanità sono propri, compreso l’errore. Quindi non c’è un copione, vado a braccio e interagisco anche col pubblico accompagnando il tutto con qualche pezzo live dal repertorio dei Bachi da Pietra o di Succi. Spesso prendo degli spunti di passaggio dagli argomenti: un pezzo che spesso suono è «Satana» di Giovanni Succi.

LR: Che rimandi stai avendo dal pubblico che assiste allo spettacolo?

GS: È uno degli spettacoli che mi stanno dando più soddisfazioni in assoluto, proprio perché la gente viene prevenuta. Perché con Dante è come se ti fanno vedere la foto di una Ferrari: dici «ah sì, che bella» però non l’hai mai sentita accesa, non l’hai mai vista correre. E vivi in un mondo in cui esistono solo Seicento degli anni Ottanta. Quindi mi piace quando a fine spettacolo la gente viene e mi dice «non pensavo che mi piacesse». Vuol dire che gli ho aperto una porticina, e il mondo è pieno di cose che ti potrebbero piacere: perché tutti hanno cercato di fare del loro meglio, e molti sono degni di essere ascoltati.

LR: Se avessi Dante davanti a te in questo momento, cosa gli chiederesti?

GS: Che domanda difficile. Credo che gli chiederei di raccontarmi la sua giornata tipo nel momento in cui cerca di sopravvivere da solo, a piedi, senza cibo e senza acqua, sull’Appennino tosco-emiliano.

LR: Insomma torniamo lì: è una domanda al Dante-persona, prima ancora che al Dante-autore.

GS: Sì, perché del suo lavoro ha già parlato tanto. Non abbiamo autografi ma è rimasto tanto di quello che ha scritto. Ci sono 14722 versi di una «Commedia» che ci parlano di come lavorava, c’è la «Vita Nova», ci sono tutte le «Rime», le «Epistolae», che non vengono mai considerate. Ci sono i suoi tentativi di trattati che non vengono conclusi, quindi il Dante che a un certo punto sente umanamente che non può farcela a concludere quell’opera: non riesce a finire il «Convivio», il «De Vulgari Eloquaentia», non ha senso finire il «De Monarchia» perché tanto il mondo è andato a rotoli lo stesso. Quindi decide di inventarsi un viaggio nell’Oltretomba, come già in tanti avevano fatto. Ma tanti chi? Tutti nei panni di personaggi quali mistici, santi o eroi, come Enea. Infatti Dante lo chiede al Virgilio della Commedia, con che credibilità avrebbe affrontato quel viaggio. E Virgilio gli risponde che va bene così, «come as you are».

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