Trentasei anni di carriera, una produzione di nove dischi, comandante dell’ordine nazionale del Mali, cavaliere della cultura in Francia, ambasciatrice ONU dei diritti sulle donne e ambasciatrice FAO. Basterebbero questi titoli per rendere il calibro di Omou Sangaré. Oppure, al contrario, basterebbero i dischi a giustificare l’importanza di una delle migliori artiste di quello straordinario crogiuolo musicale che è il Mali.
Nata in un poverissimo quartiere di Bamako, la capitale del Mali, Sangaré ha respirato musica sin da piccolissima. Il Mali è infatti molto probabilmente il Paese d’Africa con la tradizione musicale più antica e potente. Dagli antichi Griot, cantori di miti e leggende popolari, fino a un lungo elenco di artisti di fama internazionale, la musica maliana è stata capace di adattarsi costantemente, intrecciando le sue peculiarità con infiltrazioni altre – che vedremo.
Questo senza mai snaturarsi o, per usare un’espressione logora, svendersi. I primi suoni che vengono in mente pensando al Mali sono sicuramente la kora e lo ngoni: la prima è un’arpa a ponte ricavata da mezze zucche svuotate e ricoperte da pelli di animale, con corde in cuoio (tradizionalmente pelle di antilope); la seconda una sorta di “chitarra” tradizionale del paese, divenuta famosa qualche anno fa grazie a Bassekou Kouyate (da avere «Segu Blue», il suo esordio del 2007 con il suo gruppo Ngoni Ba). Due maestri della kora su tutti sono Toumani Diabaté (e il suo straordinario «The Mandé Variations»: se non lo conoscete potete iniziare da lì) e Ballaké Sissoko, con «Chamber Music», capolavoro di incontri fra la tradizione maliana e il suono neoclassico, in tandem con il violoncellista francese Vincent Ségal. A proposito di strumenti a corda: in questa terra nacque anche (forse e soprattutto) il blues. Da Ali Farka Touré, Habib Koité e Salif Keïta fino al documentario di Martin Scorsese «Dal Mali al Mississippi (Feel Like Going Home)», passando per gruppi come Tinariwen e Tamikrest o solisti come Bombino. Un altro viaggio lunghissimo che vi consigliamo caldamente ma che qui ci porterebbe troppo lontano.
Ma torniamo ad Oumou: a fine anni ottanta arriva l’esordio omonimo («Oumou», 1990), che raccoglie brani di alcuni dischi precedenti pubblicati sul mercato locale. Qui la musica maliana viene presa per mano dalla Sangaré e portata in territori più moderni, anche solo da un punto di vista meramente strumentale. Da una parte infatti ci sono i canti wassoulou e i classici arpeggi in saliscendi di kora e kamele ngoni (un’arpa-liuto cugina della kora), spirali di note in rapida successione che costituiscono l’ossatura portante di moltissimi brani maliani. Dall’altra ci sono chitarre e bassi elettrici, sax, tastiere, violini e molto altro. Infiltrazioni che di maliano hanno poco, e guardano piuttosto al jazz, alla fusion, alla world music in un senso più esteso e omnicomprensivo. Un esempio evidente di questa onnivora attualizzazione (non osiamo chiamarla occidentalizzazione) lo si trova nei sapienti intrecci di archi e fiati in «Magnoumako», dove la freschezza dell’arrangiamento fa comunque il paio con i canti femminili tipici della tradizione di partenza. Nella musica maliana infatti i cori nei “ritornelli” hanno una valenza più ritmica che melodica. Questo non significa che non costruiscano melodie anche importanti (per quanto obiettivamente tutt’altro che intuitiva per un paio di orecchie europee), ma che la loro centralità risiede altrove.
Parlando di musiche africane il ritmo è infatti l’elemento centrale, quasi sempre. Stiamo dicendo una risaputa banalità, ma che di certo risulta ben corroborata ascoltando i dischi della Sangaré. E infatti numerosi e frequenti sono stati i remix che dando una veste più elettronica ai suoi brani di partenza ne hanno messo in risalto la contagiosa ballabilità: vedi «Mogoya Remixed», raccolta di rielaborazioni per mano di altri artisti (tra cui spicca il francese St. Germain) del suo omonimo disco del 2017. Dance, funk, house, afrobeat, reggaeton, pure qualcosa di techno: sono rework che smanettano con praticamente qualsiasi ritmica danzereccia esistente, radici tribali da un lato e club-culture dall’altro. Eppure.
Nel 2020 è uscito anche «Acoustic», un disco di riletture in chiave acustica di tutti i suoi brani principali. Qui a risaltare è ovviamente la componente melodica, a puntare il riflettore sul fatto che oltre alla sostanza ritmica di cui abbiamo detto, la signora sa anche scrivere melodie memorabili. Spesso il gioco condotto in questo disco diventa una vera e propria metamorfosi dei brani di partenza, il cui risultato finale costituisce una completa trasfigurazione. Pensiamo a «Yere Gaga»: se il pezzo di partenza è sostanzialmente uno scheletro ritmico che si fa ghiotta occasione per giocare e contaminarsi con l’afrobeat del leggendario Tony Allen, la sua versione acustica diventa un’intima ballata capace di disossare l’originale esaltandone l’altra metà (appunto, quella melodica). Altrove, come nell’EP «La Paix», esplodono lancinanti ballad come «Soukora-Diaby», dal retrogusto blues e quasi ritualistico.
Oltre alla musica, c’è il messaggio: cosa che nel percorso della Sangaré è sempre stata in primo piano. Riconosciuta e stimata ambasciatrice dei diritti delle donne nel mondo Oumou, giusto per dirne una, si presentò sulla scena con la seguente dichiarazione: «sono arrivata alla musica per difendere la causa femminile». Così il messaggio diventa il fine ultimo, e i suoi dischi sono spesso e volentieri un’occasione, a valle delle dovute e imprescindibili traduzioni, per riflettere su tante storture oggi ancora in essere. Parliamo di storture e non di differenze: perché quando a scagliarsi contro la poligamia e a favore dell’emancipazione femminile nella società africana è una donna con questa formazione e questa provenienza (sia sociale che geografica), il relativismo culturale finisce legittimamente fuori dalla finestra.
E allora buttiamoci in questa discografia e godiamoci questo live: perché qui si parla di roba seria, di una musicista con pochi eguali a livello di scrittura nel bilanciare ritmo e melodia, e anche di assoluto spessore nei contenuti e – soprattutto – nella credibilità che può spendere per sostenerli. Siamo da tutt’altra parte insomma rispetto alla “solita” world-music che punta solo all’effetto cartolina e risulta un po’ patchanka.
Un disco da cui partire? Probabilmente proprio «Mogoya» (anche se pure l’ultimo «Timbuktu», 2022, è ottimo), il lavoro che più di tutti nella sua discografia rappresenta un tassello che sia più facilmente assimilabile da “noi” europei. Perché qui più che mai oltre a tutti i trademark maliani che abbiamo detto la controparte che ci aiuta a digerirli più intuitivamente è valida e riuscita: prendiamo «Wassulu Don» con un riff di chitarra elettrica che potrebbe essere stato scritto dai Black Keys (o dal Pan del Diavolo) e una cassa dritta che gasa in abbondanza. Non parliamo poi del video, che potrebbe funzionare alla grandissima anche per un qualsiasi pezzo trap. Poi ci sono «Kamelemba», battiti dance per un groove dal sapore funk e pure una spruzzata di synth sullo sfondo, gli intrecci di chitarre di «Fadjamou», il compassato afrobeat funkeggiante di «Kounkoun». Sono confettini pop (chiamiamoli così) che si alternano a brani più tradizionali come l’iniziale «Bena bena», il folk di «Mali niale», la cinematica titletrack (belle e abbondanti anche qui le partiture d’archi) in coda alla scaletta. Buon viaggio. E che Omou Sangaré sia solo uno (splendido) punto di partenza.