Se pensate che Paolo Conte sia semplicemente un cantautore vi sbagliate di grosso. L’Avvocato – venerdì 10 maggio al Creberg, sold-out da tempo – non è un cantautore, nel senso che lui non ama questa parola e chi lo conosce sa che non è riduttivamente un cantautore. Ma non è neppure solo un musicista, anche se come musicista lui, l’Astigiano, è uno dei picchi assoluti della musica del Novecento (e di questa affermazione riderebbe, dietro il nasone da maschera). E se pensate che sia un poeta, nonostante qualche anno fa gli abbiano dato il Premio Librex-Montale, vi sbagliate ancora una volta – e lui a questo punto si schernirebbe come fa dal vivo quando un applauso al termine di un brano non finisce più: scuotendo una mano nell’aria, come a dire “avanti”.
E allora cosa è Paolo Conte? La risposta è: Paolo Conte è un immaginario. A base di provincia d’antan, sentimenti non dichiarati, amanti negli hotel, Genova, Francia e canzone francese, jazz, sbagli da professionisti e tanto tanto altro. Un immaginario che, in quanto tale, è necessariamente anche un culto. Il culto di Paolo Conte. Paolo Conte – come Tom Waits, come Kubrick, come chi volete voi fra quelli che vi hanno ribaltato la vita – è uno di quegli artisti che nell’atto di creare fondano un’appartenenza in forma di adorazione. Chi lo ascolta crede in lui, a lui si affida e da lui si lascia immergere, appunto, nell’immaginario. Un sacco di volte Conte mi ha salvato: dalla noia, dall’immoralità del banale, dalla tristezza, dall’impossibilità di scorgere la bellezza. E mi ha insegnato quanto la fantasia possa essere una possibilità di rinascita dal grigio del quotidiano.
Per questo l’articolo che state leggendo non è l’articolo di un normale ascoltatore di Paolo Conte. No, questo è un articolo di un devoto al culto di Paolo Conte. Che non conosce crisi, secolarizzazioni, disincanti. Ma anzi risplende più passa il tempo, arrivando a livelli estatici, come nel “Live in Caracalla” da cui deriva il tour che passerà a Bergamo. Non esistono infedeli verso il culto di Paolo Conte. Voi conoscete qualcuno che non lo apprezza? Bene, sappiate che questa è soltanto “gente per cui le arti stan nei musei”.
Dunque, prima di recarvi al Creberg e godervi questa manifestazione dell’assoluto (sto usando toni altisonanti? Avete ragione, ma ricordatevi che io sono un fedele vero, nessun relativismo verso Conte), dicevo prima di andare al Creberg leggetevi questa lista di cose da sapere su Paolo Conte. Sono quasi tutti dettagli secondari. Ma è da questo che si riconoscono le grandi narrazioni inimitabili: dai dettagli, che esplodono in “incantesimi, spari e petardi”.
Paolo Conte e “Azzurro” (oppure no)
L’ultimo disco di Paolo Conte, come detto poco sopra, è un live. Venti canzoni dal vivo e un inedito (“Lavavetri”). Il titolo per esteso è “Live in Caracalla. 50 Years of Azzurro”. E alla fine della tracklist, penultimo brano, c’è proprio “Azzurro”, in una versione roca, leonina, travolgente. Ma Paolo Conte in questo tour – che si chiama come il disco – “Azzurro” non la fa sempre. A Milano, ad esempio, dove l’ho visto io l’ultima volta, non l’ha fatta. Ma come, direte voi, non fa “Azzurro” nel cinquantenario?
Paolo Conte se ne frega. Non ama le celebrazioni. Ancora oggi, quando il pubblico lo omaggia con una standing ovation (a Milano le standing ovation saranno state una decina), lui guarda la platea con quel mezzo sguardo incerto, ci infila un gesto schivo, e se parlasse – perché l’Avvocato in concerto non parla quasi mai – chiederebbe “Ma siete sicuri?”. Ciò nonostante sia un’istituzione in Francia, abbia suonato più volte di fronte a grandi platee a New York e in mezzo mondo. Che ci volete fare, è un piemontese e come tale tende sempre ad abbassare un po’ il tiro.
Paolo Conte, Atahualpa e qualche altro dio
La scaletta prevede di solito come quarto pezzo “Alle prese con una verde milonga”. Uno dei capolavori assoluti di Conte. Lui la fa quasi subito, e ancora prima fa “Sotto le stelle del jazz”, tanto di canzoni straordinarie ne ha scritte a bizzeffe. Fate attenzione però: quella che ascolterete è, a livello di arrangiamento, la miglior versione del pezzo, che da anni è uno dei momenti topici di tutto il live. Si tratta di una versione sonnecchiante, nebbiosa, indolente, che ha delle improvvise accelerazioni mai eccessive. E termina, sulla coda ancheggiante di questa milonga femminea e verde, con un soffio nel microfono. Un soffio come di vento da tormenta, o qualcosa di simile. O meglio come un qualcosa che viene dall’alto.
Basta questo piccolo accadimento sonoro a Conte per creare un’atmosfera magica, metafisica, per portarci via tutti (è questo l’immaginario, un portarti via senza che te ne accorgi). Un qualcosa che secondo chi scrive è la continuazione spiritica, forse esoterica, di quell’incredibile serie di versi che dicono “Da inseguire sempre, da inseguire ancora / Fino ai laghi bianchi del silenzio / finché Atahualpa o qualche altro Dio / non ti dica descansate niño / Che continuo io”. Atahualpa Yupanqui, Paolo Conte. Un incontro fra dei della musica, lassù, nell’assoluto dove le note diventano fibrillazioni di luce (a proposito, se non sapete chi è Yupanqui leggete qui).
Paolo Conte che sembra non stia in piedi
Nei concerti di Paolo Conte c’è tutta una gestualità che va raccontata. In fondo io vado ai concerti di Paolo Conte sì per le canzoni, tuttavia ci vado anche per quella teatralità dimessa eppure eccentrica che accompagna i pezzi. È una sua immaginazione difficile da interpretare, un modo tutto personale di vivere il momento ineguagliabile della musica; è mistero, incantamento. È, in altre parole, il sintomo del genio, come Dylan che da anni conclude i suoi concerti, autentiche lotte del Bene (lui, Dylan) contro il Male del mondo, con una posa da cavaliere pistolero: gambe aperte, dita nelle tasche dei pantaloni, sguardo verso un qualcosa che solo lui vede, e che mi piace pensare sia il drago contro cui combattè san Giorgio.
In ogni caso, tornando a Conte, la lista dei gesti è lunga. Il primo da sottolineare nell’etologia dell’animale-da-palco Conte è l’apparente impossibilità di stare in piedi dritto quando canta al microfono senza stare dietro al pianoforte. In quei momenti al pianoforte lui si appoggia, si piega, sembra franare, ma alla fine sta su e condisce il tutto con una serie di picchiettamenti dei palmi sulle cosce ad un ritmo tutto suo, poi passa a degli sventagli delle mani nell’aria, come elicotteri nell’aria, e intanto rifila qualche sguardo divertito ai musicisti. Qui Conte è sciamano, è nell’estasi della musica, si lascia trafiggere. E noi con lui.
Paolo Conte porta in India Diavolo Rosso
Ma non si può parlare di estasi di Paolo Conte nella musica senza classificare i gesti di “Diavolo rosso”. Il brano nella versione live varia dai dodici ai quindici minuti, con la chitarra a sorreggere il ritmo sostenuto della pedalata e alcuni degli strumentisti della band (cavalieri che ogni sera fanno l’impresa) ad alternarsi in prima posizione per degli assoli travolgenti e incantatori. “Diavolo rosso” è il racconto per immagini di enorme potenza evocativa del ciclista astigiano Giovanni Gerbi, ma da anni questa narrazione (piemontese nel paesaggio e nella lirica) assume un qualcosa di indiano, di salgariano.
Qui Conte diventa un incantatore di serpenti, ispirando il clarino, il violino e il bandoneon con gestualità circolari, strani battiti di mani e puntelli di pianoforte (guardate il video). Tutta la band va in trance, in rapimento mistico, il pubblico esplode di applausi ad ogni assolo. Sembra di essere sulle strade della corsa, ma pure in India, sulla riva di un Gange immaginario, a partecipare a un travolgente Kumbh Mela musico-ciclistico. Fino alla chiusa dove la chitarra rallenta. E il chitarrista Daniele Dall’Olmo, eroe definitivo nel ripetere lo stesso giro di accordi veloci per oltre dieci minuti, tira il freno e chiude, la mano ormai tramortita, insieme agli scoppi argentini dei piatti di Daniele Di Gregorio: “Guarda le notti più alte / di questo nord-ovest bardato di stelle / e le piste dei carri gelate / come gli sguardi dei francesi / un valzer di vento e di paglia / la morte contadina /che risale le risaie / e fa il verso delle rane / e puntuale / arriva sulle aie bianche / come le falciatrici / a cottimo“. Dite che è poesia questa? Va bene dai, qui ve lo concedo.
Paolo Conte e una canzone pericolosa
Infine va segnalata la canzone pericolosa di questi live di Conte: “Max”. Oggi Conte ne fa una versione più soffice, ma un tempo era davvero pericolosa perché con il suo crescendo trascinante, dove gli strumenti si aggiungono uno alla volta, poteva provocare una dionisiaca follia. Il sottoscritto ne sa qualcosa. Nel 2002, al Donizetti, tour di “Razmataz” (disco minore e bellissimo del nostro, nonché musical ahinoi mai realizzato), in quanto povero ma già adepto del verbo contiano, presi una piccionaia di necessità.
Band fra le migliori per qualità (come da anni del resto) e numero di musicisti importante (fiati, un quartetto d’archi, coriste, in tutto oltre la ventina di elementi). Arriva “Max”. Da fedele contiano sapevo che in quella versione il crescendo sarebbe stato imperioso, stile Impero romano, con i fiati a svettare e il resto della banda a sostenere la melodia, che sa essere malinconica ma, se innestata a dovere, diventa forzuta, zona peplum (i film di Maciste, per intenderci).
Sapevo anche che Conte, subito dopo l’apice del crescendo, avrebbe tirato un urlo, un aaah! potente e inatteso per i più. Il crescendo mi prende, mi porta via, sale, non si ferma, ha un qualcosa di erotico, arriva all’apice, attendo l’urlo ma non mi trattengo. E sbaglio clamorosamente il tempo, tiro anche io un urlo in leggero anticipo rispetto a quello di Conte. AAH! io e un microsecondo dopo AAH! lui. L’intera piccionaia si gira verso di me, sotto probabilmente non sentono e anche se hanno sentito non importa. Importa l’estasi, il visibilio, il delirio. Quel puro fanatismo che fa di Paolo Conte un musicista unico. Un artista di culto che il culto l’ha fondato. AAH!