Un’infanzia da subito votata al canto, gli studi jazz e lo sbocciare dell’amore per la musica country: quello di Claudia Buzzetti è un percorso artistico variegato ma coerente nelle sue metamorfosi. Assemblata una band di amici con le stigmate del collettivo – gente che va e gente che viene, l’importante è suonare e divertirsi – ecco che per Edoné Dischi esce il suo album di esordio “7 Years Crying”; cinque pezzi inediti, scritti chitarra acustica in mano e poi portati in sala prove agli amici per essere suonati da tutto il gruppo. Tra melodie indovinate, coordinate tra il country, il bluegrass e un r&b acustico e jazzato, la voce di Claudia si snoda ammaliante di traccia in traccia rappresentando il fulcro di un primo lavoro appassionato e decisamente riuscito.
In attesa di poterla vedere esibirsi dal vivo sabato 24 luglio nella serata conclusiva di Rock sul Serio, in apertura a “Quando tutto diventò blu” di Alessandro Baronciani. L’abbiamo raggiunta per una bella chiacchierata sul suo percorso musicale, sul disco fresco di stampa e su cosa significhi appassionarsi al country americano essendo nata a Bergamo.
LR: Ciao Claudia, giusto per cominciare… Da quanto canti?
CB: Canto praticamente da sempre. Ho iniziato da piccola nel coro della chiesa, poi ho preso lezioni di pianoforte, ho fatto teatro, poi il coro al Lussana… Insomma, sono sempre stata attiva in ambito “artistico”. A 17 anni ho creato un gruppo jazz, che è la mia prima passione, chiamato Close Quartet.
LR: E il country quando entra in gioco?
CB: Poi negli ultimi sei anni della mia vita sono entrata in contatto con il mondo della musica country: ho iniziato a suonare la chitarra da autodidatta negli Hillbilly Heroin, poi ho conosciuto Paolo Ercoli, un musicista di Milano che suona la steel Guitar, il mandolino, il dobro ed è dentro a quel mondo perché è proprio il suo mestiere. Con lui ho iniziato un progetto e varie collaborazioni e insomma, è esplosa questa passione per il country, che poi alla fine non è così distante dal jazz e dalla musica swing, quindi da tutti quei generi di provenienza americana che rappresentano la loro tradizione, quello che andava in TV negli anni Cinquanta: da Johnny Cash ad Hank Williams, fino a Dolly Parton: è il loro background, la loro musica popolare, quello che ascoltano i loro nonni.
LR: Una fulminazione ma non troppo estemporanea, quindi…
CB: Quest’ultimo progetto è nato perché appunto suonando la chitarra in quella direzione le canzoni che sono nate appartenevano a quel genere e seguivano quella linea. Inizialmente ero piuttosto titubante all’idea di prendermi sulle spalle una tradizione che non era la mia. Le canzoni erano nate ma non avevo intenzione di farne chissà che. Poi sono andata a New York e questa cosa mi ha aiutata molto nel misurarmi con i miei modelli. Da lì mi sono spostata e ho visitato il Michigan, dove ho suonato e dove ho alcuni amici cantautori. Mi sono resa conto che lì esiste tutta una scena underground di giovani che suonano country, e ho capito che c’era uno spazio anche per me. Quindi sono tornata e ho voluto creare questo gruppo di amici.
LR: Claudia Buzzetti & the Hootenanny.
CB: Esatto. In realtà questo progetto è nato anche per fare una cosa che non avevo mai fatto: iniziando a suonare nel jazz non ho mai avuto l’appuntamento fisso settimanale con gli amici per suonare insieme. Così dopo varie prove nell’estate del 2020 abbiamo finalmente registrato con Brown Barcella al Tup Studio. La mia più grande soddisfazione è stata chiudere un percorso pubblicando questo lavoro. Un prodotto finito, che ha una storia e uno spessore, perché c’è dietro tanto.
LR: Band o collettivo?
CB: La mia intenzione iniziale con gli Hootenanny non è mai stata tanto quella di creare una band. Va benissimo anche ruotare le persone all’interno, l’importante è suonare insieme: una cosa che torna anche nel nome, che significa proprio “tutti dentro”, “daga det”, “tutti sul palco e suoniamo”, insomma ci siamo capiti!
LR: Oggi senti ancora la distanza culturale che per forza di cose sussiste nel country tra te e i tuoi modelli?
CB: In realtà il mio non era tanto un sentimento di distanza quanto di timore. Volevo andarci cauta. Poi però bisogna anche essere sinceri con sé stessi: io ho sempre ascoltato musica inglese, fin da bambina nel mio mp3 c’erano gli U2 e David Bowie.
LR: E questa cosa si sente parecchio ascoltandoti: con la tua impeccabile pronuncia anglosassone non sembri italiana…
CB: Avendo avuto sempre quella lingua nelle orecchie, alla fine non fa tanto dove nasci ma quello che vuoi essere tu. E io ho sempre vissuto immersa in questa musica, inglese e – soprattutto – americana. E poi oggi con i social e quant’altro le distanze si sono praticamente annullate, non c’è più questa distanza tra i Paesi.
LR: Il disco è uscito per Edoné Dischi.
CB: Loro erano la mia prima scelta. Non sapevo che avrebbero aperto un’etichetta, forse non lo sapevano neanche loro, ma di sicuro ho sempre voluto collaborare con loro. Sono sempre stati loro ad indicarmi il Tup Studio, in generale sono persone con cui mi sono sempre trovata molto bene e quindi quando è arrivata la proposta è stato tutto perfetto.
LR: Che tipo di live vedremo nel tuo concerto a Rock sul Serio?
CB: Ci saremo io e Thomas Pagani, il mio compagno musicale fisso per quanto riguarda il country, poi Matteo Milesi, il batterista del mio gruppo jazz, e Simone Pagani al basso. Faremo i pezzi del disco e non solo, perché il live durerà circa un’ora e nell’album ci sono solo cinque pezzi. Faremo nostri pezzi originali e qualche cover, sempre tutto in inglese.
LR: Il tuo pezzo preferito del disco?
CB: Mi piace moltissimo “New York Walk”, che all’inizio non volevo neanche inserire. Sono molto legata ai testi: non sono esattamente pesanti, però non avrei mai voluto fare dei pezzi frivoli, che vanno benissimo e ci vogliono anche quelli: volevo essere convinta di cosa pubblicavo, quindi ci ho speso tanto tempo. In particolare “New York Walk” ha un testo molto cervellotico: parla del passato che influisce ancora sul nostro presente e lo cambia, probabilmente perché noi glielo permettiamo. La canzone quindi inizia con questa sensazione di essere inseguita in strada, di notte, con un’ambientazione un po’ à la Hitchcock. Io penso di essere al sicuro nascondendomi in casa a chiudendo la porta, ma poi capisco che la preoccupazione è reale perché effettivamente bussano alla porta, ed è il passato impersonificato che ancora ha il potere di cambiare il presente.