Bilal, classe 1979, da Philadelphia, artista mutevole e inafferrabile, trasversale e coraggioso nello spaziare tra i generi – dal jazz al neo soul, dal blues all’hip hop, passando per il rock e l’elettronica – e nel mantenere sempre un profilo ben distante dalle luci dei riflettori.
Un musicista che in carriera ha licenziato cinque dischi da solista e soprattutto ha collaborato con nomi altisonanti, stelle fisse nel gotha della musica black: Kendrick Lamar, Erykah Badu, Common, Jay-Z, Beyoncé, J Dilla, The Roots, Mac Miller, The Game, Solange, Robert Glasper, John Legend, Ghostface Killah e Prodigy (rispettivamente dal Wu-Tang Clan e dai Mobb Deep), e tanti altri ancora.
Insomma un curriculum impressionante, che almeno in linea teorica poco si sposa con l’aura di personaggio schivo e dal basso profilo che accompagna il suo nome, in realtà poco conosciuto anche da chi bazzica abitualmente l’universo sonoro identificato dai più blasonati nomi che abbiamo citato.
Invece approfondendo un poco il percorso di questo indecifrabile musicista si scopre che i suoi cinque dischi sono stati pubblicati nell’arco di ben 14 anni, e soprattutto che la musica che vi è contenuta riesce a smarcarsi senza sforzo da qualsivoglia pressione di tipo commerciale. Bilal fa la musica che gli piace, come vuole e quando vuole. Le collaborazioni dorate ci cui sopra non sono un tramite per inseguire un successo in scia a nomi blasonati, quanto piuttosto un attestato di grande stima artistica da parte dei colleghi più pop.
Da bambino la sua educazione è meticcia e ibrida come sarà la sua musica: padre musulmano e madre cristiana, Bilal cresce assorbendo come una spugna le suggestioni musicali che gli arrivano dai genitori. A soli 11 anni dirige il coro della chiesa frequentata dalla madre, e a 14 già ha il suo piccolo gruppo con cui esibirsi nei club di Philadelphia. Nel frattempo frequenta gli innumerevoli locali jazz cui è introdotto dal padre, mastica Art Blakey e Quincy Jones, e si iscrive alla School of Jazz della New School a Greenwich, New York, uno dei maggiori conservatori americani. Si laurea poi nel 1998 alla High School for Creative And Performing Arts, vuole vivere per la musica e di musica.
Nei giri dell’hip hop che conta però ha già gli agganci giusti: a New York conosce personaggi come Common, Erykah Badu e il collettivo The Roots. Ma la sua carriera da musicista professionista comincia quasi per caso, notato da Aaron Comess – batterista degli Spin Doctors (gruppo crossover meteora degli anni Novanta) – che lo mette in contatto con la Interscope. La casa discografica, ancora fresca di acquisizione della leggendaria Death Row di Tupac, Snoop Dogg e Dr. Dre, lo mette subito al lavoro.
Proprio con Dre, guru delle produzioni West Coast, oltre che con J Dilla, collabora per la realizzazione del suo esordio solista “1st Born Second”. Il disco esce nel 2001 e raccoglie un ottimo successo sia di pubblico che di critica. L’intingolo sonoro è variegato ed eclettico nell’attraversare la musica nera tutta: si va da numeri g-funk come “Fast Lane” a sfoglie old school come “Reminisce”, da languide morbidezze soul come “Sometimes” e la hit “Soul Sista” a spettri dub post-rockisti come la conclusiva e a tratti cacofonica “Second Child”.
Viste la qualità e il successo del disco, la Interscope gli chiede subito di mettersi al lavoro ad un degno seguito. Tutto sembra apparecchiato per il definitivo decollo di un artista in piena rampa di lancio. Al contrario da qui in poi niente andrà come previsto.
Bilal vuole il completo controllo creativo sulla sua seconda opera, la pensa quasi interamente suonata da musicisti in carne e ossa, il titolo è “Love for Sale”. Ma proprio le sales sono l’unica cosa che interessa alla Interscope, che ascolta il disco e non si ritiene soddisfatta, bloccandolo a tempo indeterminato perché ne prevede l’insuccesso commerciale. Bilal ovviamente non ci sta e abbandona la barca, poi l’album non si sa come compare comunque online, lui va in tour senza averlo mai pubblicato ufficialmente e la sua strada si divide da quella della label di Santa Monica.
Passeranno addirittura nove anni prima che un nuovo disco a nome Bilal faccia la sua comparsa. Nel 2010 arriva “Airtight’s Revenge”, licenziato dall’indipendente Plug Research (già al lavoro con Flying Lotus). Proprio questa assoluta libertà di intenti e di tempi sarà l’unica costante della carriera in proprio di Bilal: periodi di pausa, indipendenza, rifiuto delle major e nessuna ingerenza esterna in ambito creativo.
Il disco, che resta sconosciuto ai più data la sotto-esposizione promozionale, è semplicemente uno dei punti più luminosi toccati dalla musica black del Terzo Millennio.
Oscuro e straniante, Bilal unisce un classicismo soul tradizionale e ortodosso a convulse ritmiche post-IDM, patine arty, intarsi chitarristici di matrice prog ed echi addirittura bowiani (ascoltare “Flying” per credere). È un r&b capace di allontanarsi sideralmente dalle proprie radici pur restando saldamente ancorato al terreno da cui è germogliato. Si potrebbe parlare di progressive-soul, di retro-futurismo, di cyber-jazz, ma la verità è che le etichette lasciano il tempo che trovano davanti a un disco così stratificato e caleidoscopico.
Anche la voce, che alterna falsetti inarrivabili e crooning più piacioni, è un trattato di virtuosismo al servizio di una penna sempre incisiva, che si tratti di episodi più autobiografici o di affondi politicizzati (come le distopie di “Robots”).
Il 2010 è anche – e soprattutto, almeno in ambiti più mainstream – l’anno di “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” di Kanye West, che pur con strumenti diversi fa la stessa cosa di Bilal: porta in avanti la musica nera, senza dimenticarsi di cosa si lascia alle spalle. “Airtight’s Revenge” è un po’ un MBDTF meno glamour e senza massimalismo, senza grandeur, senza narcisismo e trip ego-maniaci, ma con lo stesso occhio lungimirante e omnicomprensivo, tradizionale e precursore al tempo stesso. Rispetto a West c’è più raffinatezza, più jazz, anche più psichedelia volendo.
Il 2012 è l’anno del terzo disco, “A Love Surreal”, ancora per una label indipendente (eOne Music). Bilal abbassa il tiro rispetto al capolavoro precedente (o forse, semplicemente, lo cambia abbastanza radicalmente). Guarda al romanticismo black di “Let’s Get It On” di Marvin Gaye e al surrealismo di Dalì, per un lavoro setoso e più erotico. La tensione latente che impregnava “Airtight’s Revenge” sembra del tutto scomparsa, ma si continua a spaziare alla grandissima: c’è il singolone funky pettinato “Back to Love”, cui fa da contraltare la ruvidezza blues di “Astray”. E poi spuntano dolcezze psych che guardano al Jimi Hendrix di “Axis: Bold As Love” (“Never Be the Same”), riff di chitarra intarsiati a echi à la Japan (“Longing and Waiting”), cosplaying dei Radiohead (“The Flow”) e di D’Angelo (“Winning Hand”).
Ormai la dimensione di Bilal sembra assestata su questa intrigante via di mezzo: un piedino nel mainstream con i featuring giusti nei pezzi altrui (nel 2015 compare in “Institutionalized” e “These Walls” di Kendrick Lamar nel capolavoro “To Pimp a Butterfly”) e dischi in proprio in cui fare letteralmente solo quello che gli pare. È un outsider consapevole e orgoglioso di esserlo, la classifica in fondo ai pensieri e tante idee da mettere a fuoco in uscite da weirdo auteur tutte da scoprire.
Con “In Another Life” nel 2015 il focus cambia ancora: “I want to make music that is going to confuse the computer” dice in un’intervista, e non possiamo che dargli ragione. Smessi i panni del pur contaminato electro-soul dell’episodio precedente, qui chiama alla produzione il guru del retro-futurismo Adrian Younge.
Il risultato finale mixa Sly Stone e “Black Messiah” di D’Angelo, gli Earth, Wind and Fire con Kendrick Lamar, Cody Chenutt e l’afrofuturismo di Sun Ra. Nella bossanova di “Open Up the Door” riecheggia Stevie Wonder, la batteria di “Star Now” potrebbe essere presa di peso da un disco del Wu-Tang Clan, ma tutto è frastagliato e disordinato nella sua paradossale coerenza, solcato da crepitii e interferenze da sci-fi e synth iperrealisti, schizofrenico e quasi carnevalesco nell’alternare una sequenza di maschere apparentemente infinita: c’è il lounge-jazz di “I Really Don’t Care”, il funk sintetico à la Prince di “Pleasure Toy”, i barocchismi di “Money Over Love”, il serrato free-form di “Money Over Love” (ancora con una super strofa di Lamar), la blaxploitation venata di psichedelia di “Lunatic”, e si potrebbe proseguire per sempre. Ancora una volta il plauso della critica è unanime, il riscontro in termini di vendite tiepidino.
A lui va bene così, e ora torna in tour. Noi non possiamo fare altro che consigliarvi di non perdervi il live al Druso di Ranica venerdì 15 novembre (ore 20, 20€ + prevendita / 25€ in cassa; open act: Bag.Ladies), in cui magari poter gustare una sua cover degli Yes o dei Led Zeppelin come è solito fare: scelte che testimoniano una ricchezza di riferimenti che spesso e volentieri esula dalla musica strettamente nera, per affondare in un approccio che resta progressive negli intenti prima ancora che nei suoni. Chissà quale sarà il prossimo passo.