Chissà se Antonello Salis tiene la bandana che indossa sempre sul palco anche mentre è al telefono con me per parlare di «Giornale di bordo», il progetto che con altri due sardi e un americano di Chicago porterà a Bergamo Jazz. La voce arrochita e lo spirito piratesco mi inducono a credere che lui la bandana la porti sempre. E che sia un segno di libertà musicale, senza il quale nessuna imprevedibile navigazione con i suoi compagni di viaggio sarebbe possibile.
LB: Tre musicisti sardi e uno di Chicago. Senza nulla togliere al grande Hamid Drake, perché non un quarto musicista sardo?
AS: Il motivo è molto semplice. Paolo già suonava in duo con Hamid. Poi sono arrivato io e siamo diventati un trio. Con Gavino la formazione era completa. Nel frattempo, si sono creati altri duetti tra di noi e il quartetto è il frutto di tutte queste indicazioni che sono emerse. Il gruppo è venuto fuori così, piano piano.
LB: Ma il giornale di bordo, usando come metafora il titolo del vostro progetto, lo tiene sempre uno di voi quattro o ve lo scambiate?
AS: Mah, fuori da ogni tipo di retorica, noi ce lo scambiamo democraticamente. C’è una fiducia reciproca, ognuno è in grado di indicare una direzione da seguire e gli altri gli vanno dietro, quindi nella nostra musica c’è poco di codificato e molto d’improvvisazione. Ad ogni concerto si ricomincia da capo, nel senso che non si riprende dal concerto precedente, ma ci si affida ai sentimenti del momento. Non è una cosa molto facile, richiede anche un po’ di fatica, ma è molto eccitante. Nessuno dorme, perché ci vuole tanta attenzione reciproca.
LB: Possiamo dire allora che nessuno è gregario e al contempo lo sono tutti, uno dell’altro.
AS: Lavoriamo tutti per il groove generale, non ci sono soli previsti come in altre formazioni ma nascono spontaneamente secondo ciò che accade. È un lavoro d’intesa, sarebbe più semplice stabilire dei codici, ma non averli permette di partire da punti sempre diversi senza sapere dove si approderà. E così ogni concerto diventa una sorpresa per noi oltre che per il pubblico. Siamo quattro musicisti che hanno un po’ paura di cadere nell’ovvio e quindi andiamo sempre all’avventura, che può essere anche “pericoloso”, per modo di dire. Non dimenticando mai di suonare qualcosa che sia credibile per il pubblico.
LB: Il risultato è una mescola gioiosa ed evocativa di free-jazz, echi world e ancestrali, rumorismi e molto altro.
AS: C’è tutto quello che abbiamo frequentato, tutte le esperienze fatte che sono rimaste nella mente e alla fine vengono fuori. Insieme cerchiamo di coordinare tutto ciò ed è molto stimolante che ogni musicista del quartetto metta il suo, quello che ha fatto nel tempo. Non pensiamo di fare niente di particolarmente innovativo, ma cerchiamo sempre di mescolare le carte e vedere cosa succede. Evitando di mettere davanti le nostre individualità e coinvolgendo la gente.
LB: Tuttavia sulla dinamicità ritmica e armonica di Drake mi pare di scorgere due direzioni: una più fisica e viscera che appartiene a lei e a Gavino Murgia, un’altra più trans-temporale, quasi metafisica di Paolo Angeli.
AS: Sì, è vero probabilmente, ma dall’interno la percezione è diversa. Ognuno di noi è disposto a stare dentro il mondo dell’altro, al di là dei generi, che per me non vogliono dire nulla. Sappiamo reciprocamente come suoniamo, per questo cerchiamo di variare con grande libertà delle cose che sono codificate (come nella rilettura di «Dear prudence» dei Beatles o in quella del canto tradizionale «Corsicana tarantina», ndr), inseguendo sempre un nuovo piglio.
LB: Mi viene da dire che contano molto i limiti di ciascuno: conoscerli facilita l’intesa fra di voi.
AS: Certamente conosciamo noi stessi e i nostri limiti, tanto che a volte si ha l’impressione di esser sempre uguali perché ci si conosce bene. In realtà però ci accorgiamo che a volte suonare insieme è per noi un tentativo di superare quel che conosciamo, magari anche suonando in un modo non del tutto spontaneo ma che serve ad arricchire la musica che stiamo facendo in quel momento, ad avere un approccio come se fosse la prima volta, anche dal punto di vista emozionale.
LB: Quindi non c’è solo spontaneità totale, ma anche un po’ di “strategia”, di adeguamento al suono del momento…
AS: Sì, è come un gioco, in cui si cerca di uscire dalle situazioni più complicate (ride, ndr).
LB: L’impressione generale infatti è che vi divertiate molto…
AS: Assolutamente, perché divertirsi è qualcosa di fondamentale per fare musica. Per intristirsi ci sono altri problemi nella vita. Suonare insieme deve essere come un sogno, come una cosa che ci faccia divertire come pazzi, finiamo i concerti ridendo fra di noi. Ho sempre pensato la musica come un divertimento. Ma non inteso come qualcosa di superficiale tipo la musica di consumo, che comunque abbiamo ascoltato tutti.
LB: In inglese “suonare” si dice “play”, come giocare.
AS: Appunto, solo da noi si dice “suonare” e sembra sempre un po’ serioso. Invece suonare è un gioco, in cui tutto il tuo essere musicista si mescola con l’essere musicista degli altri. Nella mia testa e anche in quella degli altri musicisti del quartetto c’è questa idea.
LB: Il vostro è uno di quei progetti che si definiscono jazz, ma che dal jazz in qualche modo cercano di fuggire, almeno da quello più classico.
AS: Il jazz è una lingua, poi usi quella lingua per affrontare altre sonorità, altri linguaggi. Per cui è questo per me il senso della parola jazz. Io fino ad ora ho cercato di parlare di musica, non di jazz, di musica nella sua totalità. A me i generi sono stati sempre po’ stretti: se conosci il linguaggio, la base, poi puoi suonare alla tua maniera qualsiasi cosa, con la consapevolezza del percorso da cui dove vieni.
LB: C’è una bella idea di libertà alla base di tutto questo.
AS: È la libertà che ti permette di suonare in modo rilassato, senza sentire alcun obbligo di suonare in un certo modo, secondo un canone. Non parlo mai di jazz perché ho ascoltato tantissima musica diversa e ciascuna è un binario diverso da percorrere. Questi binari differenti sono forse il senso di questo progetto: Paolo viene dalla musica rock, Hamid dall’hip hop in cui già negli anni settanta c’era il jazz e la musica nera, eccetera. Per me è stato sempre difficile suonare su un solo binario perché ne ho visti tanti altri accessibili che mi hanno incuriosito.
LB: Percorrere altri binari significa anche staccarsi dai modelli…
AS: Ogni musicista ha avuto dei modelli, l’importante è non diventare prigionieri di quei modelli e a un certo punto della vita decidere di fare qualcosa di personale.
LB: E se si conquista questa libertà può cambiare anche il modo di approcciarsi ai concerti.
AS: Per me oggi fare un concerto non è fare vedere quanto si è bravi, ma quanto si è funzionali al risultato finale della musica che si sta facendo. Uno suona per la musica, mette a disposizione il suo bagaglio personale per la squadra, diventa un gregario al servizio della musica. Quando invece un musicista suona da solo può levarsi tutti i pruriti di egocentrismo che si ritrova.
LB: Per finire mi tolga una curiosità: lei ha 72 anni, suona da più di 50. Come ha vissuto il passaggio dalla musica “fisica” degli LP e dei cd a quella “fluida” delle piattaforme come Spotify?
AS: A dir la verità non ho mai amato fare nemmeno i dischi e stare rinchiuso in studio a registrare. Quindi sono molto lontano da queste nuove tecnologie. A me piace suonare dal vivo, i concerti. Finché ci saranno quelli ci sarà la musica.