“Il cammino dell’anima” è l’ultimo disco del musicista milanese, uscito a ottobre. È un’opera in forma di suite tutta incentrata sulla figura di Hildegard Von Bingen, mistica e compositrice dell’anno Mille. Branduardi sta portando in tour questo lavoro insieme ai suoi brani più celebri. Giovedì sarà a Bergamo: occasione ghiotta per fargli qualche domanda sul disco e su altre curiosità legate al suo percorso artistico (il 12 febbraio il nostro ha compiuto settant’anni).
LB: Beh, prima di tutto auguri!
AB: Grazie! “Confesso che ho vissuto”, come diceva il mio grande amico Giorgio Faletti (la citazione è da un brano che i due scrissero insieme per il disco “Il dito e la luna”, ndr).
LB: Non posso evitare di chiederti un bilancio di questi settant’anni, di cui quarantasei di musica…
AB: Direi anche cinquanta! Io di bilanci non ne faccio, nel senso che seguo un cammino che non è un’autostrada ma un percorso tortuoso. Dove sbaglio, cado, mi rialzo, vado da una parte, vado dall’altra, ed è un cammino che finirà soltanto con la mia dipartita. Sono alla ricerca di qualcosa che spero di non trovare, un po’ come i cavalieri che andavano cercando il Santo Graal. Sapevano benissimo che non c’era, però il senso del loro cammino era la ricerca con la R maiuscola.
LB: Da Yeats a san Francesco, tu di Ricerca tu ne hai fatta parecchia.
AB: Sì, perché so che la musica è una visione, è l’arte più astratta come dice Ennio Morricone. Quindi è la più vicina all’assoluto. Suono da quando avevo cinque anni, ho avuto una formazione classica, poi ho incontrato un sacco di musicisti con cui ho collaborato. Spero che tanti altri mi chiamino, in Italia e all’estero. Sono qua, “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. È chiaro che non camperò centoquarant’anni, quindi non sono nel mezzo ma… va beh!
LB: L’ultima tappa di questa ricerca è “Il cammino dell’anima”. Uno si aspetta un disco di canzoni e trova una suite sull’“Ordo Virtutum” di Hildegard Von Bingen. Dove a cantare sono la virtù, l’anima e il diavolo. Su una musica che non aveva armonia e che viene armonizzata. Tutto molto controcorrente…
AB: E anche provocatorio. In tanti se ne sono accorti adesso, ma io sono sempre stato un provocatore. Non provengo da una scuola e non ne ho fondata una. Non ho nemmeno epigoni e non li voglio avere, quindi in teoria sarei un’artista di nicchia. Però per qualche strano motivo nel corso degli anni molte volte sono finito nel mainstream facendo dei successi internazionali colossali, non lo nascondo.
LB: “Guardati: dentro di te c’è il cielo e la terra” è una frase di Hildergard che citi spesso. Dentro c’è ovviamente una prospettiva cristiana. Ma va oltre, verso un afflato cosmico.
AB: Sì, lei era qualcosa di più di una monaca cattolica. Chiamava Sinfonia tutte le sue musiche e le definiva Inaudite perché le richiamavano quelle del movimento delle sfere celesti. Oggi come negli anni Settanta è un idolo delle femministe. Era un personaggio eccezionale: musicista, ma anche fitoterapeuta e dietologa. Fu lei la prima a mettere il luppolo nella birra: quindi quando ne beviamo una ricordiamoci che c’è dentro un po’ di Hildegard.
LB: Tu la definisci marziana.
AB: È una specie di marziana, sì. Un Leonardo Da Vinci in gonnella quattro-cinquecento anni prima. Nel disco ci sono due danze, e ti accorgi che è musica di quegli anni là. Ma nelle due estasi le sue composizioni diventano invece immortali, sono fuori dal tempo. Lei era un genio, difatti è anche dottore della Chiesa. Ci hanno messo mille anni per farla santa perché era troppo strana. L’ha resa dottore nel 2012 papa Ratzinger, che è un fine teologo. Secondo me, lo dico e lo nego, se fosse vissuta trecento anni dopo sarebbe finita al rogo.
LB: Fu anche una persona che soffrì molto in vita. Iniziò ad avere visioni da piccolissima ed erano visioni che la provavano molto.
AB: La distruggevano, sì. A me piace ricordare le cose più belle. Ad esempio quando lei fondò il suo ordine le monache erano vestite di bianco e non portavano il velo ma i capelli sciolti, intrecciati con fiori e foglie. Nella suite ci sono due danze perché le monache pregando ballavano. E qui c’è una cosa che non sa quasi nessuno: se tu guardi gli altari delle chiese romaniche, come ad esempio quella di Sant’Ambrogio a Milano, vedi che sull’altare sono posate delle grandi lastre di marmo con dei gradini molto bassi. Sai perché? Perché durante le cerimonie i fedeli ballavano. La musica, la gioia, la fede erano una cosa sola. Oggi sono rimaste delle tracce di tutto questo nel gospel afroamericano, ma qui in Europa la danza come forma di preghiera è tramontata.
LB: “Il cammino dell’anima” può essere considerato uno spin-off del tuo progetto di recupero della musica medioevale, “Futuro antico”. E così torna il tema delle radici che ti sta molto a cuore…
AB: Quando ho fatto io il conservatorio non studiavamo musica antica, si partiva dal Barocco. La prima volta che ho ascoltato queste musiche medioevali ho subito sentito che mi stavano parlando a delle corde nascoste. Ho capito che era lì l’origine dell’Europa, della nostra Europa che non riesce a convivere ancora oggi. Tolkien le definisce “le radici profonde che non gelano mai”. La musica, anche quella popolare, seguiva ogni atto dell’uomo: c’era la musica per nascere, per morire, per raccogliere il grano, etc. Poi la composizione si è via via staccata dalle nostre azioni e si è arrivati all’arte per l’arte del Romanticismo, è bello e giusto che sia andata così. Però la musica si è separata da ogni nostro gesto. Ti faccio un esempio: un africano non andrebbe mai ad ascoltare una messa di Mozart se non ci fosse un morto vero.
LB: Nel disco “Il cammino dell’anima” c’è una nota molto bella di Aldo Nove. Non mi sembra casuale, in qualche modo la sua produzione poetica più recente si avvicina all’istanza cosmica di Von Bingen… (Nove ha da pochi giorni pubblicato la nuova raccolta di poesie “Poemetti della sera”, ndr).
AB: Siamo grandi amici. Lui ha scritto questa cosa di getto senza che nessuno glielo chiedesse. Me l’ha mandata e ho chiesto il permesso di inserirla nel disco, è così bella, scritta in un italiano virtuoso, prezioso, che è un piacere leggere. E poi, mi si perdoni l’immodestia, mi è sembrata anche vera.
LB: Tu sei stato allievo di Franco Fortini.
AB: È stato il mio maestro e mentore. Avendo fatto il conservatorio, non ho frequentato scuole “normali”. Ai tempi si pensava: basta che suoni bene il violino, anche se è un deficiente non importa. Da lui ho imparato tutto, lo seguivo come un allievo rinascimentale.
LB: È vera questa cosa che hai esordito sul palco come spalla di Lou Reed?
AB: Sì, facevo la spalla della spalla di Lou Reed. Sono stato l’unico a suonare a luci accese, tanto non gliene fregava niente a nessuno, perché il pubblico stava preparando le biglie per il gruppo dopo di me. Erano tempi così.
LB: “Alla fiera dell’est”, “La pulce d’acqua” e “Cogli la prima mela” furono tre best-seller. Come si sopravvive a un successo del genere?
Per me “Alla fiera dell’est” è stata solo una meraviglia. Se tu vai da un bambino a chiedere chi è Branduardi ovviamente non lo sa, però il topolino della Fiera dell’Est lo conosce. Questo significa che la canzone non mi appartiene più, è diventata patrimonio popolare. Il che mi garantirà dopo la mia dipartita una certa quantità di immortalità. Senza voler essere modesto a tutti i costi.
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(Grazie a Giulia Locatelli per la collaborazione all’articolo)