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#allamiaetà: Osvaldo Schwartz, “capisco tutto, vi capisco tutti, ma io sono un indipendente, uno scollegato”

Racconto. Il polistrumentista e compositore bergamasco è il fondatore delle Officine Schwartz, storico gruppo di musica folk-industriale. La sua è una storia di suoni non convenzionali e di sperimentalismo. Ce l’ha raccontata

Lettura 10 min.
Osvaldo Schwartz

“Beh, non so... qualcuno che ha 65 anni e racconta quello che gli è capitato, lasciando stare gli incidenti stradali, le patologie...”.

L’idea che si è fatto della rubrica in cui comparirà la sua storia è scarna ma centra il punto. Ha preparato il caffè e servito dell’acqua dentro una bottiglia di birra IPA appoggiata su un piattino di metallo. Ci troviamo nel soggiorno del suo appartamento al Villaggio degli Sposi, Bergamo. È la seconda mattina d’estate, una luce meravigliosamente pulita entra dalla portafinestra aperta che si affaccia sulla strada. L’intera discografia delle Officine è posizionata sul tavolo, tre vinili e cinque CD. Lui siede sul divano. Appesi al muro ci sono un basso Fender Mustang, una chitarra Aria e la testa di un fusto in ferro da 200 litri.

“Io, beh, ho fatto principalmente musica. Poi mi sono adattato al mondo”.

Osvaldo Arioldi, in arte Osvaldo Schwartz, è nato il 12 febbraio 1956. Lo stesso giorno di Ray Manzarek, il tastierista dei Doors, gli faccio notare. È nato il 12 febbraio? Dai!. Si alza e indica uno scomparto alle spalle della scrivania. “Vedi questi dischi? Metà sono dei Doors, l’altra metà dei Velvet Underground. Dice che i Doors li ascolta sempre ogni volta che arriva ottobre perché li trova inerenti al periodo in cui le cose muoiono per lasciare che ne nascano altre. “‘Riders on the storm’ è qualcosa di simile a un passo del Vangelo. Ha un incedere con questo metronomo che tum-tum-tum, è un po’ più veloce del cuore, però siamo lì”.

Nasce il 12 febbraio, e quaranta giorni dopo il padre e la madre lo portano a Neuhausen, sulle cascate del Reno, nella Svizzera tedesca.

“Siamo emigrati. Mio papà era un operaio specializzato al tornio a revolver, qui in Italia aveva lavorato per la Caproni – quella degli aerei – e per la Rumi – quella delle moto. Su là ha lavorato per la SIG. Producevano armi e treni”. La fabbrica, il ferro. “Io poi ero sempre malato. A 4 anni mi hanno spedito qui ad abitare dagli zii, intanto che finivano i contratti e potevano comprarsi questa casa, dove siamo adesso. Alla fine della fiera mio padre è morto due giorni prima di venirci ad abitare. E allora ho abitato con mia mamma, appassionata di lirica, ho qui ancora i suoi dischi, ogni tanto li ascolto”. La musica.

Cose che Osvaldo porta con sé tornando dalla Svizzera: “Una fisarmonica, un mandolino ridotto con quattro corde e i tasti, un metallofono a due ottave, due armoniche a bocca e un tamburo di latta”.
Ricordi che Osvaldo porta con sé tornando dalla Svizzera: “Mio papà che mi leggeva delle cose. Un triciclo metallizzato arancione. Le cascate del Reno. Io e mia mamma con le fette di mela pulite per darle ai cigni. Mi ricordo che quando pioveva loro due e un’altra coppia di italiani andavano sulle rive del Reno dove uscivano le lumache, le cucinavano mentre gli svizzeri le schifavano. Mi ricordo i treni. I treni a vapore. Gli scompartimenti con gli emigranti e le scatole di cartone con lo spago. Così: delle visioni”.

A nove anni riceve in regalo la sua prima chitarra, una Eko Fiesta, e comincia a suonare da autodidatta. La sua fortuna – dice – è stata quella di avere avuto un cugino che ogni sabato comprava un 45 giri: “Una volta è arrivato a casa con il 45 giri di ‘Per qualche dollaro in più’. Io mi sono... Mamma mia. C’era fatalità, tensione: stupendo”.

Sullo stesso pianerottolo della zia vive un tale che suona il basso in un gruppo beat, che “conosceva tutto quello che si poteva conoscere delle musiche inglesi”. La band si esercita nella sua cantina.

“Mia mamma ospitava le prove, e allora andavo giù a ad ascoltare queste chitarre elettriche cristalline”. Racconta che sono i Beatles a fargli cambiare la prospettiva sulla musica, che gli appassionati dei Beatles erano gente che dava importanza all’ascolto, “Perché sono difficili da suonare, i Beatles. Io ho sempre prediletto gli ascolti complessi”.

Nel 1970 frequenta l’Esperia e osserva defilato le agitazioni di quegli anni. “Ero un cane sciolto, un osservatore che marinava la scuola molto spesso. Assemblee e cose politiche non le ho mai frequentate, non sono in grado di ascoltare tante parole. All’epoca si usavano le sacche militari per portare i libri: io ci avevo messo sopra una A cerchiata, anche se Bakunin non l’ho mai letto. Capisco tutto, vi capisco tutti, ma io sono un indipendente, uno scollegato.

Dopo circa un anno lascia l’Esperia, cambia istituto, vorrebbe fare il conservatorio, studiare chitarra, ma non glielo permettono. E allora valuta il biennio all’alberghiero. Alla fine torna all’Esperia, indirizzo “meccanici”. Fino al 1972, quando molla definitivamente gli studi e inizia a lavorare in una grande officina della zona, nel frattempo divora il prog rock e ogni “musica dei tempi”: Vanilla Fudge, Van Der Graaf Generator, Gentle Giant, Genesis.

“Ho cominciato a fare il metalmeccanico in un’azienda che lavorava alluminio e acciaio. Io poi tornavo a casa dal lavoro, cenavo, mettevo l’eskimo e uscivo e andavo con i miei amici a suonare i bonghi e la chitarra. È andata avanti così, fino a poco dopo la metà degli anni Settanta, quando poi ha cominciato ad abbruttirsi il mondo. C’era in giro solo eroina e lotta armata, eroina e lotta armata... Musica, non si sapeva più chi ascoltare. Tutto il progressive con il 1975 ha finito di essere interessante”.

Nell’estate del 1976 prende le ferie per una vacanza in Marocco. Per strada conosce un bretone di nome Ivan, e allora sceglie di non ritornare e ci passa tutta la stagione estiva. Scrive a casa: “Ci vediamo più avanti”. Per qualche mese gira tutto il Mediterraneo marocchino. “All’epoca era meraviglioso: niente in giro, ogni tanto un villaggio di pescatori, e poi sabbia e mare basso”. Finita la stagione, torna a casa: licenziato. E riparte per l’Iraq, dove lavora in un cantiere.

“Poi ho avuto la tubercolosi e sono stato fuori dal mondo un anno, in sanatorio, al Groppino di Piario, in Val Seriana”. Si cura, legge “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee”, Kerouac, tutto Steinbeck. Degli autori americani ama i grandi spazi: colline, strade, montagne infinite. “E dentro questi spazi, l’uomo che si muove”. E poi la musica. Al sanatorio riesce a suonare (“avevo su la chitarra”). E gli amici che salgono a trovarlo con le ultime dal resto del mondo: Iggy Pop, David Bowie e Lou Reed.

“Quando sono tornato c’era il punk”. Era il giugno del 1979. Con i soldi del sussidio per tubercolotici si compra una chitarra – la “Aria” appesa alla parete – e un amplificatore – che ora è accanto alla finestra e ne ha viste di cotte e di crude ma Osvaldo mi assicura che funziona ancora benissimo, perché “negli anni Ottanta con un saldatore a stagno e un cacciavite aggiustavi tutto, tutto aggiustavi!” – slancio battistiano, questo.

“Insomma. È successo il punk, fine anni Settanta. Infatti è cambiata tutta la scena”. E allora mette su una band, i Raptus e si compra quel basso appeso accanto alla chitarra: “con degli amici, facendo le prove in cantina, e nel luglio del 1979 allo spazio giovani della Festa dell’Unità che si svolgeva alla Fara, ho dato vita al primo concerto punk a Bergamo”.

Poi arrivano gli anni Ottanta.

“Il punk è arrivato in ritardo in Italia, c’era già la new wave. Abbiamo fatto i Raptus e dopo che la spinta punk si è esaurita abbiamo preso una tastierista e virato verso la new wave”. Il nome della band cambia in Effetti collaterali. “Siamo andati avanti fino a metà ’83. C’è anche da dire che in quel periodo a Bergamo raggruppava tanti orfani, diciamo così. Ex Lotta Continua, gruppo di femministe, un gruppo di anarchici, noi appassionati di musica. Tutti suonavamo, bene o male: c’erano i Messa a fuoco, i Terrorismo genetico... E c’era questo collettivo ‘Tribù Liberate’ che ha organizzato le tre giorni musicali al parco di Loreto. L’abbiamo fatto per tre anni”.

Agli inizi degli anni Ottanta il movimento punk si interseca con Autonomi, cani sciolti, anarchici, “reduci” assortiti delle organizzazioni degli anni Settanta a comporre una grande area socio-culturale in cui è centrale la volontà di riappropriarsi del tempo libero, degli spazi, per una cultura indipendente e autogestita. In tutte le città d’Italia si diffondono i CSA (Centri Sociali Autogestiti) e le occupazioni di stabili abbandonati: riempire il vuoto, dare nuova vita agli spazi urbani, soprattutto periferici.

“Negli anni Ottanta si è creato un sistema per cui tutti gli scollegati hanno potuto esprimere meglio quello che erano. I primi collegamenti noi li abbiamo avuti con il Virus di Milano, che ha poi fomentato il Leoncavallo con l’Helter Skelter sotto: posti che sono stati dei templi dell’autogestione, dell’antagonismo, dell’espressione libera. Girava un sacco di gente, comprava dischi che non conosceva ma sicura di comprare un prodotto autentico, genuino, scollegato dalle major, dalle etichette. Una roba anarchica ma riconosciuta tardi in tutta Italia”.

In quegli stessi anni, tra il 1980 e il 1983 Osvaldo lavora come tecnico di regia in quella che ora è Rete4. “Al tempo si chiamava Video Delta, era qui a Bergamo. Erano anni fantastici, se eri un minimo pratico di mixer eri in grado di pilotare una regia televisiva. Facevo emissione, costruivo pubblicità, dirette, controllo audio”.

Orario di lavoro: 18-23. Fuori dalla futura Rete4, dentro al Virus di Milano. Poi arriva Mondadori – che ancora non era di Berlusconi – e si compra la frequenza del canale 38: era la frequenza tra le più belle, partiva dalla Roncola e abbracciava tutto il territorio. Erano tutti lì a bramarlo, per la serie ti do mia madre per il canale 38. Dopo sei mesi hanno detto: ci trasferiamo a Segrate”.

A Segrate Osvaldo non ci va, lo relegherebbero alla sola emissione e capisce che non è quello che vuole fare. Si licenzia. Una sera la TV è accesa su Canale5, trasmette i Gaznevada, una band bolognese del circuito antagonista: “Io sono rimasto avvilito: ma come? E allora ho pensato: siamo circondati. Ci hanno beccato. C’è stata una falla ed è entrata l’acqua. Non è vero che siamo tutti compatti, che la musica può non seguire le mode, che può essere avanguardia. Io l’ho visto come un tradimento che fossero in TV su Canale5”.

Ed è allora che nasce l’idea per le Officine Schwartz.

“Da quando ho visto sta cosa in tv sono rimasto di merda e il cervello ha cominciato a girare. Dicevo: ho bisogno di fare musica e di creare. Come fare? La prima cosa che mi è venuto in mente è stata di abolire tutti gli strumenti convenzionali dell’espressione giovanile: chitarra elettrica, batteria, testi in inglese, musiche quadrate. Aboliti. Cosa rimane? Mi ha illuminato un articolo sui Throbbing Gristle e sulla musica industriale. E allora ho cominciato a ricercare in quella direzione: batteria elettronica, sintetizzatori, strumenti saturati, basso saturato, voci recitate, niente canto, qualche coro. E poi invece del solito concerto qualcosa che comprendesse danza, proiezioni, un nuovo sistema di esibizione. Quindi ho scritto un brano e l’ho chiamato ‘Officine Schwartz’”.

Il nome del brano diventa il nome della band, composta inizialmente da 4 elementi. Tastiera, violino, batteria elettronica, basso. “Schwartz” viene dal nome di un gioco di carte con cui giocava in Svizzera, Schwarzer Peter. “Poi ho proposto di entrare nelle Officine a un po’ di persone con cui avevo suonato nelle band precedenti: Raptus, Effetti Collaterali, Out of Limits, Papillon Crud, tutti gruppi new wave”.

Suonano sei date, una ogni due mesi, al Conte Sconta, uno dei primi bar di Bergamo a far suonare dal vivo, all’angolo tra via Moroni e via San Bernardino. “Prima degli anni Ottanta non si suonava nei bar” racconta Osvaldo.

Dalla storia dei Gaznevada mi sono dato delle regole” spiega. “Dopo l’abolizione degli strumenti convenzionali mi sono imposto di non ascoltare o avere a che fare con musiche successive agli anni Quaranta. Non volevo essere schiavo di tracce melodiche che ricordavano qualcos’altro. Ho scoperto questa estetica meccanica, storie di operai sfruttati. Li ho presi e li ho fatti diventare parte di uno spettacolo. Volevo fare uno spettacolo che unisse storia, buone intenzioni ed estetica innovativa. Ero molto affascinato dalla parola avanguardia, volevo essere originale. Per essere originale ho cancellato i miei tempi, mi sono collegato a quelli molto prima e ho attinto da lì.

Un po’ alla volta Osvaldo si avvicina a realizzare quello che sarà il tratto distintivo delle Officine Schwartz: musica industriale acustica suonata con metalli ricavati da scarti. “Ho cominciato a girare i rottamai e a creare strumenti a percussione dai metalli”.
L’insieme di tutti gli strumenti a percussione delle Officine Schwartz è chiamato “La ferrata”. Comprende: tubolari, lamiere, pressofusi di ottone, acciaio, ferro, rame, lamiere zincate, bidoni, fusti di metallo.

Dice che il metallo ha una bella sonorità, che non voleva creare strumenti di legno: “Di strumenti di legno ce n’è piena l’aria. Chi cazzo suona gli scarti di metallo? È un discorso di originalità, di estetica industriale e operaia che parte dal Novecento e arriva agli anni Quaranta. Quando abbiamo cominciato l’operaio della meccanica non c’era già più, negli anni Ottanta sono arrivate le presse col telecomando, si è trasformato tutto il lavoro. Noi volevamo essere un colore poetico della Storia, una parte di storia espressa a poesia, una storia passata che nessuno di noi conosceva.

Nella seconda metà degli anni Ottanta e durante gli anni Novanta le Officine si evolvono, aggiungono strumenti a fiato, raggiungono i 27 membri, collaborano con il pittore e illustratore Andrea Chiesi, producono due dischi (uno con l’etichetta “Kom Fut Manifesto”, oggi “Rizosfera”, e uno con il Manifesto, “L’Internazionale cantieri”), partecipano al documentario “Materiale resistente” di Guido Chiesa e Davide Ferrario e nel 1999 compaiono nel film “Guardami”, sempre di Ferrario. “Poi l’interesse è sceso. Con la fine degli anni Novanta la gente ha cominciato a far figli, a cambiare lavoro, città... e dopo il film sono andati via tutti”.

Un anno dopo Osvaldo compone “Ferrodolce”, un progetto formato dagli strumentisti del Quartetto Elettromeccanica e un sestetto di percussionisti. Le Officine si riuniscono in una nuova formazione solo nel 2011, per un concerto all’OGR di Torino. E nel 2015 per celebrare il trentennale con un concerto all’Auditorium di Bergamo.

Oggi Osvaldo lavora come archivista in una società finanziaria. “Mi sono accorto che organizzare un archivio funzionale non è molto differente dall’organizzare una composizione sinfonica” dice.
“Attualmente sono in cassa integrazione da 15 mesi perché il settore a cui si rivolge l’azienda, quello turistico, sta riprendendo solo ora. Dopo un mese che ero in cassa integrazione ho fatto un brano pubblicato in internet sulla storia dei trenta camion militari...”
Si schiarisce la voce e inizia a cantare a cappella.

“La colonna scendeva dalle mura / Con le bare su / Trenta camion militari verso sera / Coi parenti che non ci son più”

Intanto si è fatto il primo pomeriggio. Parla del suo ultimo progetto musicale, Blues Decappottabile, in duo con il chitarrista Marco Valietti. Suona il “tubicordo”, uno strumento che si è costruito da sé, nel solco della tradizione Schwartz: “È di metallo, un cordofono con due corde ispirato agli strumenti rituali africani”. Dice che da un po’ ha “messo da parte l’ideologia e lasciato andare il cuore” ma che non è comunque facile lavorare con lui.

Ho delle esigenze, ma non perché sono pignolo, ma perché secondo me l’arte, l’espressione, la comunicazione se voglio arrivarti all’anima devo trovare il sistema per farlo, e sono sempre sistemi molto laboriosi. Non viene niente dal subito. Il subito viene subito, però è effimero. Dopodomani non ti ricordi neanche più. Mentre ‘Riders on the storm’ te la ricorderai sempre. Lo vedi il testo, non è venuto via così ma da pagine, da ore di emotività”.

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