Icestoni dei supermercati affollati di cofanetti con il meglio del meglio di questo o quell’artista, grandi classici in primis. Il battage mediatico per convincerci a comprare l’ultima raccolta definitiva dei nomi importanti del pop nostrano e internazionale. E magari la ricerca di un’alternativa originale e soprattutto bella, impresa ardua e magari scoraggiante nel mare magnum delle uscite discografiche.
Sì, Spotify mette a disposizione tutto, ma un disco, soprattutto in vinile, è ancora un oggetto culturale interessante, basta che sia di qualità.
Ecco allora 5 titoli usciti quest’anno (4 inediti e una riedizione) che si smarcano decisamente dai soliti dischi-regalo imbalsamati e pronti a una carriera da sottobicchiere. Lavori freschi e innovativi, di artisti italiani e non solo, che fanno delle commistioni e delle aperture – a stili, tradizioni e generi tra i più disparati – la base comune per poi spaziare in direzioni divergenti.
Machweo, “Fire and Sea” (2019, cd Hyperjazz)
Giorgio Spedicato è tra i producer più interessanti trasversali – nelle influenze e negli esiti – del nostro panorama. La post-chillwave a base di rarefazioni ambient e folktronica da cameretta dell’acerbo ma già interessante esordio “Leaving Home”. Il recupero retrospettivo della club-culture degli anni Novanta nel più danzereccio e vintage “Musica da Festa”. Il punto d’arrivo (?) di “Primitive Music” del 2018 che si arricchisce di band al seguito e pezzi suonati dal vivo, per un gioioso imbastardimento a cavallo tra jazz ed elettronica dalle parti di un Luke Abbott o, meglio ancora, di un James Holden o di un Floating Points altezza “Elaenia”.
Sono queste le tappe per arrivare a “Fire and Sea”, uscito l’8 novembre 2019 per la freschissima Hyperjazz di Dj Khalab. Un lavoro che è un po’ la summa di tutto il ricco percorso di Machweo: musica dal e sul Mediterraneo, in un incontro di suoni, tradizioni e colori felicemente meticcio. Folklore siculo e sfoglie arabeggianti, soundtrack altezza primo “Age of Empires”, spiritual jazz e trance primitiviste, scorie dance e tanto altro. È un incontro di suggestioni e influenze che fa della contaminazione la propria cifra stilistica principale, un mischiarsi consapevole e orgoglioso di crogiolarsi in un’infinità molteplicità di patrimoni genetici.
In tempi di chiusure – mentali e portuali – e autarchismi talebani e bigotti, c’è un gran bisogno di aperture come questa.
C’Mon Tigre, “Racines” (2019, vinile BDC / !K7)
Non è un gruppo, non è un ensemble, potremmo forse chiamarlo collettivo: quel che è certo è che i C’Mon Tigre – duo basato in Italia, di fatto cosmopolita nelle influenze e nelle collaborazioni – amano sporcare e confondere le acque. Funk, afrobeat, hip hop, folk e soul, e soprattutto jazz, più nei ritmi e nell’approccio che nelle sonorità vere e proprie.
Come Machweo, la loro musica abita nel Mediterraneo, ma è in qualche modo più sanguigna, onirica e storta rispetto a quella contenuta nell’ultimo lavoro di Spedicato.
D’altronde “Racines” in francese significa “origini”, che in questo caso rappresentano il punto di partenza e non quello di arrivo. Le spezie world e i florilegi di fiati si mischiano alle drum machines e ai sintetizzatori, con delle chitarre acidissime a fare da comun denominatore disegnando cibernetiche pitture rupestri di hi-tech sabbiosa. È una balera post-globale cervellotica e visionaria, sculettante e obliqua. Ma che arriva sempre dritta al punto.
Se volete regalar(ve)lo, noi consigliamo l’edizione in doppio vinile con libro da sfogliare durante l’ascolto, un universo visivo distinto da accostare ad ogni brano.
Silk Road Assassins, “State of Ruin” (2019, vinile Planet Mu Records)
Se Machweo e C-Mon Tigre disegnano il mondo aperto e disponibile ad accettare influenze “altre” che vorremmo, i Silk Road Assassins (trio inglese di produttori e sound designer) rappresentano invece la migliore colonna sonora del nostro contemporaneo a tinte fosche.
Qui siamo dalle parti di un grime post-apocalittico che guarda alla idm e all’hardcore-continuum, in un deserto HD di grattacieli abbandonati e scheletrici, nubi tossiche e metastasi metropolitane. Gaika e Proc Fiskal quindi, Digital Mysticz e tutto il giro Hyperdub.
Potrebbe sembrare un peccato che non ci sia nessun rapper ad appoggiarsi sulle basi, ma forse proprio questa è la fruizione migliore: strumentali per arredare la contemporaneità, un malinconico sfondo per l’ansia da iper-connessione che permea l’oggi.
Musicalmente poi è una vera goduria: ci sono le citazioni videoludiche giuste (“Armaments” omaggia esplicitamernte Metal Gear Solid), esperimenti puntinisti (“Familiars”) e deflagrazioni harsh-noise (“Shadow Realm”), bradicardie trap (“Bowman”) e inaspettate aperture melodiche di dancehall ectoplasmatica (“Bloom”).
Citando Mark Fisher, la colonna sonora perfetta per gli spettri del presente.
John Frusciante, “Curtains” (2005, vinile Record Collection)
I più lo conosceranno come chitarrista (e – soprattutto – principale genio melodico) dei Red Hot Chili Peppers. Ma al di là delle avventure, tra uscite temporanee e definitive dal gruppo, non sono in molti a conoscere il percorso solista di John Frusciante. Che non sarà un guitar-hero super-tecnico fra virtuosismo e feticismi à la John Petrucci, ma ha sempre avuto dalla sua un’inventiva fuori dal comune. Elemento che è costante anche nella carriera in proprio, un ottovolante di re-invenzioni musicalmente bulimiche dai tratti quasi zappiani.
Da dischi di scheletrico cantautorato affogato negli acidi (e nell’eroina) à la Syd Barrett al più puro pop da cameretta. Da rapsodie progressive e giravolte psichedeliche, fino all’approdo degli ultimi anni all’hip hop (per lui collaborazioni con RZA e altri membri del Wu-Tang Clan) e ad un’elettronica talmente caotica e sperimentale da sembrare composta più per sé che per un ascolto altrui.
Di tutto questo casino, perché andiamo a recuperare proprio un disco del 2005? Perché quest’anno è arrivata una ghiotta ri-edizione in vinile comprendente anche due bonus-track ben lontane dall’essere un riempitivo. “Curtains” è, insieme a “To Record Only Water for Ten Days”, “Shadows Collide With People” e “The Will to Death”, uno dei dischi che meglio fotografano il Frusciante prolifico fino alla psicosi di quegli anni. Uno capace di pubblicare sei dischi in sei mesi (tutti bellissimi) e di creare una sequenza pressoché infinita di melodie pop dal gusto incredibile.
Questo è un album di cantautorato dritto e senza fronzoli: chitarra acustica e cantato dimesso, con un’atmosfera crepuscolare da panettone mangiato in taverna, davanti al fuocherello e con la copertina in pile sulle ginocchia. Qualcuno potrebbe pensare a Nick Drake oppure, scendendo un pochino di piano, a Damien Rice. Ma le sfumature che ci sono in queste tracce, sentire meraviglie come “Anne” o “Time Tonight” per credere, non le troverete da nessun’altra parte.
Comet Is Coming, “Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery” (2019, vinile Impulse)
Kosmische-jazz, afro-futurismo, post-dancehall, chiamate questa roba come preferite: questi tre folli londinesi firmano uno dei dischi migliori di quest’anno. Il mondo in cui si muovono è quello del padre putativo Sun Ra, quindi Africa e dischi volanti, primitivismo e alieni, viaggioni intergalattici e metafisica da “2001: Odissea nello Spazio”.
Basti pensare che uno dei tre è Shabaka Hutchings, la mente dietro a quei Sons of Kemet che a loro volta ci hanno regalato uno degli apici qualitativi dello scorso anno.
“Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery” è una serie di visioni che partono da Alice Coltrane e Pharoah Sanders e puntano a “Blade Runner”, tra psichedelia e afro-beat, acid-jazz e deliri trance. Cavernosi bassi dub che esplodono in frenesie electro-funk (“Super Zodiac”), dilatazioni spazio-temporali in cui è meraviglioso perdersi (“Timewave Zero”) e perfino affondi politici (“Blood of the Past” con ospite Kate Tempest).
Una Morte Nera di visioni dallo spazio profondo, un caleidoscopio di psicotopie al tempo stesso tradizionali e provenienti da un futuro di infinito anni luce di distanza. Da provare.
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