Trevisan è uno dei cantautori bergamaschi più preziosi. Una scrittura inconfondibile e dolente, dalle parole “dritte” senza troppe poeticherie. Un modo di affrontare il palco da looser alla fine vincente (vincente perché i suoi live hanno sempre un’intensità particolare, in cui alla malinconia oppone un’umanità scabra e suo modo vitale). Un primo disco sei anni fa, «Questa sera non esco», tanti live, due anni circa di pandemia, e sei anni dopo due nuove canzoni: «Davvero davvero» e «Fuori allenamento», ad anticipare il nuovo disco «Questo stupido gioco» in uscita in autunno per Edoné Dischi.
«Circostanze e prudenze. Poi tempo per capire come lavorare sui nuovi pezzi. E appunto le incognite del covid. Comunque scrivo troppo poco e scarto molto», risponde così, asciutto come lo è nella vita, quando gli chiediamo come mai tutto ci sono voluti sei anni per tornare. Matteo Trevisan è uno schivo, che parla poco, e così sono le sue canzoni. Che però a questo giro abbandonano in parte l’impronta folk dell’esordio per dirigersi verso una forma di pop d’antan dove non manca una certa veracità delle parole e gli arrangiamenti sono più “rotondi”. «Sarà un disco meno folk, tranne un paio di pezzi. Merito della produzione artistica di Federico Laini e Riccardo Zamboni. Ricky mi ha proposto di provare a lavorare in modo diverso, lasciando fare tutto al duo citato sopra. Io mi sono fidato e mi fido. E sono contento».
Il risultato è abbastanza sorprendente, ma funziona. «Davvero davvero» è una canzone sul lavoro, nel presentarla Trevisan scrive «noi bergamaschi abbiamo un rapporto molto profondo col lavoro», e che il lavoro è «orgoglio», «sicurezza», «ossessione». Ma anche un modo per riempire il vuoto: «Sì, certo un modo per riempire un vuoto, per riempire la pancia anche. Quando ho scritto quel brano il lavoro era un peso, a volte è così, per la maggior parte delle persone è necessario per vivere. Non abbiamo scelta». La voce è usata diversamente, con dei begli allungamenti di alcuni finali di verso e un solo di sax gustoso in coda.
«La vita io me la pago / e mi fa male la schiena / il caposquadra è una iena / e devo chieder permesso / per andare al cesso / se faccio tardi la mena / e vorrei dirgli in faccia quello che penso / ma sto zitto». Ad un primo ascolto sembra un pezzo alla Bugo (scanzonato ma anche fieramente provinciale e beckiano), non il Bugo di oggi ma quello di «Dal lofi al cisei» e di un pezzo come «Io mi rompo i coglioni». In realtà le coordinate sono molto diverse: «Veramente io pensavo a Lou Reed, del quale sono affezionatissimo fan. Mi è spiaciuto molto quando è mancato. L’ho sempre trovato una persona genuina. Anche Bugo lo è, ma Lou Reed ha più stile, sarà New York, sarà Andy Warhol».
«Fuori allenamento» invece ha degli accenni di suono pop anni ’80 (una tastiera che rimane in testa dal primo play), e anche qualcosa del primo Vasco. Affronta una tematica che per Trevisan è frequente: l’amore. Irrisolto, malinconico, schizzato con versi spesso confessionali, è il «cuore fuori allenamento». «Racconta di quando pensi ormai di poter gestire le pene amorose ma alla fine non ce la fai mai. Di come pensi di poter cancellare una persona cancellando i messaggi che prima vi scambiavate. Di come pensi di poter essere ormai allenato ma ti sorprendi ancora fragile e da solo ad affrontare, ancora un’altra volta, la fine di un amore o di una relazione». Scriverne è «una terapia, e uno spunto molto stimolante».
E nel comunicato una nota a margine: «“In Quel Caffè” all’inizio della canzone era, nei primi demo, “All’Edonè”, che è stato realmente teatro di quell’incontro, ma poi ho voluto cambiare per “delocalizzare” il contesto. Con immutato affetto, naturalmente». Anche perché l’etichetta che pubblica questi due brani, e il disco che arriverà, è Edone Dischi, un progetto che sta spargendo a Bergamo tante proposte interessanti.
Infine chiediamo a Trevisan di indicarci cinque dischi divenuti importanti per lui, come uomo e cantautore, dando anche una motivazione alla sua scelta. Ne risulta una specie di ritratto dei suoi orizzonti sonori, dal punk al songwriting di eccellenza.
Francesco Guccini – «Stanze di vita quotidiana di Guccini»
Non so, pieno di malinconia forse, di presagi.
Bob Dylan – «Bob Dylan»
Il primo disco omonimo: così scarno, così potente.
The Clash – «The story of the Clash Volume 1»
«Ah ma allora c’è dell’altro a questo mondo»
Francesco De Gregori – «Rimmel»
Non ho molto da dire, basta il titolo.
Rancid – «And out come the Wolves»
«Ah come I Clash, però adesso».