Sorprende e ammalia la nuova uscita OTU, fuori da pochi giorni per l’etichetta 72V, titolo «Goodkids». Se l’immaginario urbano caratterizzava l’esordio «CLAN», qui l’atmosfera si fa onirica, subcoscienziale, a volte vagamente allucinatoria. Il riferimento, tutt’altro che celato, è all’immaginario dell’infanzia, che si insinua fra le ritmiche di quella sorta di post-rock hip-hop che è la musica del duo diventato trio e collettivo aperto, oggi formato da Francesco Crovetto (batteria, elettronica), Isaia Invernizzi (chitarra e Omnichord) e Gregorio Conti (basso).
Post-rock perché dall’inizio l’intento degli OTU è sempre stato quello di evocare, di creare la parte sonora di un immaginario che l’ascoltatore ha il compito di completare. Ma la direzione è saldamente verso una forma di hip-hop strumentale carico di groove, atmosfere livide e sprazzi di luce. Così accade in «Goodkids», soundtrack di una trans-reale dimensione bambina, come spiega il gruppo, raggiunto via mail da qualche sollecitazione: «Vi siete mai fatti raccontare un’esperienza forte, un’avventura, da un bambino? Il loro confine tra realtà oggettiva e vissuto può essere molto labile e di conseguenza il loro stato emotivo può mutare molto rapidamente. Volevamo ricreare questa narrazione. Un percorso fatto da momenti diversi, con dei cambi di scena forti. Un gioco apparentemente innocuo che diventa tragedia. Un sogno che si trasforma in incubo per poi risolversi di nuovo».
Sei tracce divise in due parti, una più strumentale e l’altra di pura produzione elettronica (la seconda forse la migliore, più inquietante e risolutiva) – «che nascono da un’unica matrice di samples, per certi versi il codice sorgente su cui si fonda l’intero lavoro» recita il comunicato stampa – entrambe ad attraversare paesaggi onirici e lande adombrate. Batteria acustica, chitarra, basso e qualche sample nei primi tre pezzi, a seguire «gli stessi samples sono manipolati con strumenti di produzione propri dell’elettronica e interagiscono con drum machine, synth e un uso strutturale degli effetti». A tratti l’aria è Aphex Twin («Blinky»), altrove il verbo è sperimentare per costruire (e non decostruire), un imperativo che per gli OTU è categorico fin dagli inizi nel 2018.
«In questo disco ci siamo divertiti a giocare con gli opposti. OTU è nato su due grandi presupposti: la musica strumentale e il mondo della produzione elettronica. Se in “CLAN” questi due aspetti sono profondamente intrecciati, le regole del gioco di questo nuovo lavoro sono state quelle di tenere queste due anime ben distinte. Nelle prime tre canzoni i samples ci sono ma sono tagliati in maniera più tradizionale e vengono risolti dalla presenza di batteria acustica, basso, chitarra e Omnichord. Le ultime 3 invece sono scritte interamente “in the box”. La batteria passa dall’essere acustica ad elettronica, il basso elettrico lascia lo spazio ai synth e la narrazione è tutta incentrata sulla manipolazione sonora della post produzione».
Audiolibri e film sono ridotti a minuzie sonore o frammenti più consistenti. Il tutto è accorpato in un mosaico più grande, che ha un’origine sola. Come detto sopra, in principio era una matrice di sample, ma da non scoprire: «Preferiamo non svelare i nostri riferimenti o i frammenti usati. Sono serviti a noi per creare, come uno strumento, ma non per forza ci sentiamo particolarmente legati all’origine dei nostri sample. Alcuni non sono così nascosti, quindi possono essere scoperti. Anche questo può essere parte del gioco per chi ascolta».
Già intervistati qualche mese fa per l’uscita dell’ep «Q.TER_Vol.1», che annunciava un’evoluzione significativa, «beat strumentali a cavallo tra downtempo, ambient, sampledelica e suggestioni cinematografiche, dove alla centralità di batteria e chitarre si affianca l’amore per il campionamento e la black music», le tracce degli OTU sono le basi (autonome per potenzialità espressiva) che molto spesso tanto hip-hop italiano (con rap) non ha.
È una questione di stile e di indole, che sarebbe interessante mettere alla prova di qualche penna in stato di grazie del nostro panorama, bergamasco e non. «Seguiamo attentamente la scena hip hop italiana, anche quella dei grandi nomi e dei grandi numeri, scoprendo felicemente delle compatibilità estetiche, di gusto e di sguardo. Ma il più delle volte il nostro cuore è altrove. Nel tempo abbiamo scoperto artisti in Italia che in un senso o nell’altro potrebbero parlare la nostra lingua ma ancora non è scattata una collaborazione. Abbiamo in programma molti nuovi esperimenti per il futuro e collaborare con un rapper è uno di questi. Se in città c’è qualcuno che non abbiamo ancora sentito e che spacca il culo batta un colpo!».
Alla richiesta di indicare 5 dischi che li hanno influenzati o che amano particolarmente, gli OTU così rispondono, spiegando brevemente il perché.
JPEGMafia – «Veteran»
Le contaminazioni, il suo modo di rappare, I beat nuovi e super fresh.
Shigeto – «No Better Time Than Now»
Il suo setup live.
Ivy Lab – «20/20 Volume One»
I suoni, la produzione, le atmosfere, gli arrangiamenti.
Madlib – «SoundAncestors»
Il rapporto tra beatmaking ed elettronica (il disco è arrangiato da Four Tet).
JJ Doom – «Key to the Knuffs»
Lui è lui. Cosa vi devo dire?