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5 dischi belli da regalare a Natale

Articolo. Brian Eno, Torso Virile Colossale, Ambra Angiolini, Kenny Beats e The Caretaker: tra (dark)ambient, pop, hip hop e nostalgie peplum. Per delle festività musicalmente diverse e rigorosamente in vinile (ma dove è disponibile la versione cd ve lo segnaliamo), dischi per scoprire mondi insoliti, inimmaginabili o conferme di grandi nomi che hanno fatto la musica del Novecento

Lettura 5 min.

Grande classico del regalo natalizio, il disco in vinile è un oggetto che a tutti i musicofili (e non solo) fa piacere trovare incartato sotto l’albero. Noi abbiamo voluto consigliarvene cinque, un po’ diversi dal solito. Tra opere d’arte assolute e perle da intenditori tutte da riscoprire, ecco qualche spunto da regalare o anche solo da ascoltare per provare qualcosa di nuovo.

Brian Eno, «FOREVERANDEVERNOMORE» (2022, Universal)

Il ritorno di Brian Eno alla centralità della voce dopo quasi vent’anni: questo è «FOREVERANDEVERNOMORE», ma anche e soprattutto un disco che riesce a raccontare e restituire il presente come pochi altri. Tanto dimesso quanto solenne, parla di cambiamento climatico, solitudine, pandemia, iperconnessione e profumo di apocalisse scolpendo un suono cattedratico e spoglio al contempo.

Pare di sentire la narrazione della fine della Terra vista dalla prospettiva sideralmente distante di un’astronave lanciata in un’orbita solamente tangente alla nostra. È un disco pensato per l’ascolto in casa, ma che suonerebbe perfetto anche come installazione artistica in qualche spazio appositamente dedicato. Eppure non ci sono solo il disincanto, lo scoramento emotivo, il senso di remissione e abbandono dinnanzi a una fine (della civiltà? del mondo?) che pare ormai inevitabile. C’è anche una calda sensazione amniotica, blandamente psichedelica, che serpeggia in brani come «Icarus or Blériot».

È un disco di opposti questo grande ritorno: gli occasionali controcanti femminili («We Let It In») appaiono sia familiari che robotici; un pezzo come «Garden of Stars» suona come se Johnny Cash ci cantasse un requiem dall’aldilà, con un muro di droni a stagliarsi minaccioso all’orizzonte. È un album che ci ricorda che sì, siamo ancora qui. Probabilmente non per molto (anche in cd).

Torso Virile Colossale, “Vol. 1: Che gli Dei Ti Proteggano” (2022, Ams)

Torso Virile Colossale è un nome che già da solo solleva immediatamente un sopracciglio incuriosito, e al tempo stesso è già perfettamente esaustivo di tutto quello che si andrà ad ascoltare: il nuovo progetto di Alessandro Grazian è infatti dedicato a quel magnifico mondo (semi?)dimenticato che è il peplum nostrano.

Un genere a tutti gli effetti ascrivibile all’exploitation, sotto-cultura in cui siamo stati maestri – e forse lo siamo ancora quando vogliamo, vedi «Freaks Out» di Gabriele Mainetti lo scorso anno – in tempi ormai passati. Sono i film dei miti greci ripescati e buttati in caciara, con culturisti improvvisati attori (vedi Reg Park, maestro di Arnold Schwarzenegger) e budget ridicoli, dei Maciste contro chiunque sia disponibile e degli Ercole che fa cose, degli Ursus e dei Sansone. Un filone cinematografico di serie spesso e volentieri anche Z, ma a cui si sono prestati nomi blasonatissimi (Mario Bava e Sergio Corbucci su tutti).

Grazian (ri)prende quell’immaginario e realizza due dischi (Volume 1 e 2) profondamente inattuali e proprio per questo bellissimi, tra fascinazioni più orientaleggianti («Fedeli alla Flaminia») e cavalcate hard rock («Macigno»), scorci onirici e mistici («Le Vestali») e pomposità epicheggianti assortite («Overture Colossale», «Marcia Virile»). Si spazia da sensazioni morriconiane fatte di orchestrazioni pompose e timpani onnipresenti, a schitarrate coatte il giusto. Guilty pleasure dell’anno (anche in cd).

Ambra Angiolini, “T’Appartengo” (1994, Rca)

A proposito di guilty pleasure: in tempi non sospetti – cioè prima della presenza a X-Factor 2022 – la Sony ha ripubblicato il vinile dell’album di esordio di Ambra Angiolini, facendolo pure tornare in classifica a oltre vent’anni di distanza. Ora per chi volesse lo c’è una splendida versione con LP rosso trasparente che non può mancare nella collezione tanto dei più ferventi completisti quanto dei semplici appassionati di pop italiano. Parliamo di un disco che ha il suo ovvio apice nella titletrack, quella «T’Appartengo» che è semplicemente un singolo da paura, con strofe buttate lì in un proto-rap che sembra quasi spoken-word (più per evidenti limiti interpretativi che per esigenze artistiche) e un ritornello dalla melodia killer.

Eppure in questo album c’è tanto altro, in una specie di serraglio che alterna orrori così ingenui che fanno il giro e diventano bellissimi a intuizioni veramente geniali a modo loro. I testi sono per lo più dei bignamini che trattano di amorini e amorazzi puerili, così banali che arrivano dritti e diretti come una vangata sui denti. C’è «Margheritando il cuore», una bachata con la melodia del ritornello che sembra scritta da un Pupo in stato confusionale, e poi la fantasia escapista di «Si parte stanotte», funkettino slavato al sapore di un Crodino sorseggiato al tramonto. Poi che dire di «E muoio» (bluesaccio con chitarre di polistirolo?) che con versi irricevibili come «È l’inferno se tu non ci sei / È l’inverno senza i baci tuoi» è solo il preludio a titoli allarmanti come «Che bisogno di amore».

Il peggio (o il meglio) arriva probabilmente in coda: «Immagina che bello» sfoggia un beat hip hop clamoroso e lo usa come peggio non si potrebbe, mentre in «Lunedì martedì» Ambra legge stancamente la sua agendina settimanale senza un valido perché. C’è tanto trash ma c’è anche tanto di bello, perché tra le strofe e i testi imbarazzanti ci sono melodie indovinate e intriganti, e pure a livello produttivo fanno spesso capolino soluzioni stuzzicanti.

Kenny Beats, «Louie» (2022, XL)

Kenny Beats non è proprio l’ultimo arrivato: parliamo di uno che ha prodotto per nomi come Kendrick Lamar, Quavo, Mac Miller, Vince Staples, Jpegmafia e Slowthai, giusto per dirne qualcuno. Nonostante collabori con la créme dell’hip hop mondiale e lo faccia pure da un bel po’ di anni, ancora mancava all’appello un suo lavoro solista. La scintilla è arrivata purtroppo da una brutta notizia: chiuso in quarantena mentre stava lavorando alla produzione di «Crawler», quarto disco degli IDLES, gli è arrivata la notizia della diagnosi del padre (il Louie del titolo), cui è molto affezionato, di un cancro al pancreas.

Ecco allora che l’urgenza per comporre un disco che fosse solo suo è arrivata, improvvisa e ineludibile, con il pensiero in fase compositiva che tornava continuamente alla propria infanzia: quando il padre realizzava innumerevoli mixtape da far ascoltare in famiglia. Così ecco 17 brani per mezzora circa di durata totale: una sorta di mixtape a sua volta, con le tracce spesso inframezzate da registrazioni della voce del padre estrapolate da quei mix. Non si fa in tempo ad ascoltare un pezzo che subito confluisce nel successivo: si tratta di musica quasi interamente strumentale, con beats che campionano oscure hit di soul anni ’70 dimenticate dal mondo.

Il risultato finale, costantemente filtrato da un’estetica DIY molto bedroom-electronica, sembra quasi un G-funk non ancor gangstizzato. Qua e là sono presenti anche brevi contributi di Jpegmafia e Slowthai, ma sono talmente filtrati o rallentati da suonare irriconoscibili. Chill e nostalgia quindi le parole d’ordine, per un disco così privato che in origine sarebbe dovuto rimanere tale: la decisione di pubblicarlo è arrivata solo all’ultimo momento e – aggiungiamo noi – per fortuna che è andata così (anche in cd).

The Caretaker, «Everywhere at the End of Time» (2016, HAFTW)

The Caretaker è il progetto più famoso del produttore di Manchester Leyland Kirby, e questo è probabilmente il disco più triste della storia umana. Diviso in sei parti per sei ore e mezzo totali di durata, «Everywhere at the End of Time» è un lavoro che cerca di mettere in musica la patologia della demenza, della perdita di memoria, di un progressivo regresso della psiche che porta alla perdita di quel «Place in the World» che dà il titolo all’ultima traccia, attraverso il «forget forgetting». Il suono di un vinile logoro ci porta in una sala da ballo anni Venti, tra jazz e swing da big band, che potrebbe essere quella dell’Overlook Hotel di «Shining». Inizialmente antiquato ma saldo, via via che le tracce e i dischi si susseguono, comincia a disintegrarsi (la mente va subito a William Basinski) e a sfaldarsi. Nelle maglie sonore si insinuano glitch, buchi neri, vuoti improvvisi, sfilacciamenti che diventano mano a mano sempre più preponderanti col proseguire delle ore.

È la messa in suono di una mente che perde progressivamente di lucidità, che vede i suoi ricordi inghiottiti in un non luogo da cui è sempre più difficile recuperarli. Verso la fine, la gioiosità della musica è diventata puro rumore bianco: ma non è una semplice dissolvenza, bensì un lento sfacelo pregno di dolore e sofferenza. È l’estetica del #traumacore e dei cosiddetti «liminal spaces» (non-luoghi in cui l’elemento umano è assente o dimenticato). A comporre una soundtrack per avventure di urbex o puro e semplice commento sonoro, per contemplare un presente sempre più infestato dal passato, con una presenza orrorifica svagamente lovecraftiana ad annidarsi dietro la tenda. Chiamiamola pure hauntology per capirci: per chi volesse approfondire consigliamo di recuperare letture che vanno da Mark Fisher ai nostrani Matteo Grilli e Simone Sauza, oppure di tirare fuori la PSX e farsi una bella partita al primo «Silent Hill».

L’intera opera «Everywhere at the End of Time» sarà ripubblicato in sei vinili su bookmat.com il 24 marzo 2023, ma è già disponibile per il pre-ordine (che darà accesso a un download istantaneo di tutte le tracce contenute). Questo vinile invece si trova anche su Bandcamp.

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