Forse nel marasma di pubblicazioni settimanali con cui procede oggi il mondo musicale – uscite che si attendono più di quanto duri l’attenzione del pubblico, di solito una quindicina di giorni – non è stato dato a suo tempo, anno 2019, il giusto valore a «1985», l’esordio solista di Pietro Alessandro Alosi. Un disco saldamente e visceralmente rock, come se ne sentono ormai pochi nel nostro Paese. Ma soprattutto un bel disco, che se ne frega di ciò che sta accadendo nella musica italiana (trap, hip hop, it-pop etc.) per infilare una dietro l’altra dieci canzoni granitiche, dove chitarre elettriche, basso e batteria imbastiscono l’ossatura e un cantato urgente suggerisce che siamo lontani da qualsiasi costruzione a tavolino.
Alosi è stato per un po’ di anni uno dei due componenti de Il Pan del Diavolo, arrembante formazione folk che ha avuto un certo riscontro per alcuni anni. Poi per Alessandro è arrivata la scelta di un percorso solista, fra testi diretti e sentiti e uno sguardo che non si preoccupa molto di calcoli e strategie: «Per me – racconta lui – è stata una tappa obbligata. Dopo tanto tempo a suonare più folk che rock avevo l’esigenza di esprimermi in quel senso, sia dal punto di vista musicale sia dal punto di vista del metodo di lavoro, e conoscere una volta per tutte un percorso rock vero che sentivo mio da sempre ma che non avevo mai espresso del tutto è stato il motore di spinta verso “1985”». Una piccola grande rivoluzione che è stata «sia catarsi che terapia, quindi una formula che la musica fortunatamente ripete spesso. Musicalmente in quel disco c’era una buona dose di Replacements, Blind Melon e Steve Albini ».
Nomi tutt’altro che scontati, come scontata non è la recente continuazione di quest’avventura, con la pubblicazione lo scorso ottobre di «Downtown», un brano essenzialmente reggae, un segno di libertà realizzato in featuring con Stevie Culture. Così si legge nella presentazione della canzone: «Il reggae per molti è la normale evoluzione del rock. Per me è stato il genere che mi ha traghettato fuori dagli ultimissimi anni e non solo dalla pandemia. La musica, il messaggio e la spiritualità del genere sopravvivono tutt’oggi per chi è in grado di ascoltare. “Downtown” è lo studio davanti un cimitero in cui ho lavorato e studiato produzione negli ultimi anni, metaforicamente mi trovavo con fantasmi fuori e fantasmi dentro». E sulla collaborazione con Stevie Culture, cantante jamaicano dei THE S.A.N.E. («che per chi lo conosce ha insegnato a molti bianchi la via del reggae») il risultato è chiaro: «la sua interpretazione e le sue parole nel testo investono la canzone della vera benedizione del reggae e lancia un urlo dall’anima: “fighting till the end”».
Non è un percorso particolarmente arzigogolato quello di Alosi: dal folk al rock, dal rock al reggae. Quello che importa è l’urgenza di andare in avanscoperta, un’urgenza radicalmente umana, in primis: «Ho percepito un forte vento di libertà quando ho iniziato a gustare sonorità lontane dal rock come la musica cubana e in particolare il reggae. In questi ultimi anni mi sono riconciliato con un metodo di suonare e vivere la musica sempre meno strutturato e più viscerale. Poter esplorare discografie reggae, che per me erano poco apprezzabili qualche anno prima, è stata una fortuna». Una strada intrapresa non in solitario: «I miei colleghi e le mie nuove amicizie con cui ho condiviso questo periodo mi hanno fatto un po’ il lavaggio del cervello e pian piano ho deciso di fare mia una piccola fetta di quella magia giamaicana. L’incontro con Stevie è stato casuale ma mi ha aperto un mondo e ha regalato una credibilità importante per il brano con un vero International reggae Singer».
Infine, risale al 24 novembre la pubblicazione di «Blues Animale» – quindi dal reggae al blues, per continuare il tracciato. Uno schiaffo ferino di poco più di due minuti, appeso su liane elettriche, in collaborazione con Adriano Viterbini alla chitarra (Bud Spencer Blues Explosion, I Hate My Village, Black Friday). La copertina del brano raffigura quattro leoni saltanti, ma una specie di ritornello onomatopeico (quel «Tata ra ra ra / Tu ru tu tu ru tu ru / Pa pa ra ra ra») ricorda qualcosa di “scimmiesco” dalle parti di James Brown o del Battisti de «Il tempo di morire» e «Anna». Ma torniamo al leone: «Guarda caso il leone è anche il simbolo del reggae. In quel periodo in studio di registrazione bazzicava uno sciamano esperto di tradizione dei nativi del nord America. Io gli ho chiesto qualche consiglio perché non riuscivo a trovare il mio animale guida. Questo pensiero, questa ricerca mi è rimasta fino a quando qualche settimana dopo avrei lavorato al pezzo con Viterbini. Qui l’animale era diventato un blues in sé».
Se c’è un qualcosa che accomuna «Downtown» e «Blues Animale», oltre a quel senso di libertà di cui si è già accennato, è una certa spiritualità. Una spiritualità che però sa di negritudine, di quell’origine dello spiritual che sfocia nel reggae e nel blues. Una spiritualità a tratti primordiale: «Io mi auguro che sia proprio così, la musica senza spirito ha poco motivo di esistere. Cercavo delle canzoni che avessero un motivo proprio e importante per esistere o non avrei trovato lo stimolo per costruire qualcosa di valore per me e magari anche per gli altri».
Tutto molto bello e verace, ma cosa vuol dire portare in giro oggi in Italia del rock senza tanti sconti? «Suonare oggi è una bella sfida, il pubblico di qualche anno fa che seguiva un certo mondo musicale, detto indipendente, è molto diminuito. I più giovani praticamente non sanno neanche cosa sia un live. Con questa carriera solista il mio pubblico lo sto ancora costruendo».
E allora ad Alosi l’augurio di riuscire a costruirlo, questo pubblico. «Al momento dal vivo porterò una full band di cinque elementi ma resto elastico e pronto partire anche con la chitarra in spalla. L’importante non è quanti siamo, l’importante è che sia una festa». Alla fine non rimane che chiedergli quali siano i suoi 5 dischi della vita:
Fred Buscaglione – «Che bambola!»
Non mi ricordo il titolo. Era una raccolta da autogrill ma era una bomba e senza non mi sarei mai sentito pronto a suonare e creare il mio stile (da esperto di “cestoni”, il sottoscritto mette questa antologia della Halidon, ndr).
Prodigy – «The fat of the land»
Alle medie i miei compagni ascoltavano gli 883, io andavo nei negozi di dischi e questo mi ha sicuramente cambiato la vita.
Replacements – «Tim»
Una scoperta tarda ma che ha rispolverato in me lo spirito distruttivo del punk e delle canzoni stonate.
Troggs – «From nowhere»
Un capolavoro del garage con composizioni degne dei Beatles.
Elvis Presley – «Number 1»
Una spinta che mi ha fatto scoprire migliaia di angoli del rockabilly.