È un lavoro che nel 2011 ha mostrato a tutti come Alberto, Luca e Roberta fossero la cosa più simile ai Radiohead che abbiamo in Italia. Vale a dire, senza cadere nel sacrilegio, una rock-band che del rock se ne infischia, che non ha paura di osare, che polarizza spesso e volentieri gusti e opinioni ma resta sempre e comunque fedele alla sua onesta imprevedibilità.
18 gennaio 2011: compare un titolo epigrammatico e palindromo che è anche l’unica esclamazione possibile, prima davanti alla scaletta del (doppio) album e poi durante l’ascolto. Perché con le debite proporzioni, questo è una sorta di “Mellon Collie” nostrano. In questi ventisette brani i Verdena ci infilano di tutto e di più: “Wow” è un caleidoscopio di stili e di idee, bello ed elegante perché pieno zeppo di illuminate soluzioni arrangiative e fecondi crossover stilistici, ma anche brutto e sporco perché registrato nel loro Henhouse Studio e infarcito di residui one-take, tra vocine di sfondo, rumorini, crepitii e glitch vari. È un disco che sa di sangue e sudore, in cui l’urgenza viva e pulsante di provare a fare tutto non si lima perché non ne ha bisogno, e nella sua bulimica prolissità riesce pure a restare inaspettatamente sintetica (i vari pezzi sono brevi e concisi, anche nella loro non-aderenza al formato canzone).
C’è però talmente tanta carne al fuoco che si rischia di rimanere frastornati e spaesati durante l’ascolto. Questa è infatti l’accusa principale mossa da chi non ama particolarmente il disco. Non è sicuramente un lavoro da sentire superficialmente, mentre si fa altro. Merita ed esige un’attenzione di ascolto che è condizione irrinunciabile per riuscire a coglierne le infinite sfumature. Sfumature che sono talmente tante e spesso e volentieri anche distanti tra loro, che cogliere un’identità di fondo comune alle tante tracce presenti può risultare impresa ardua. Ma proprio in questa difficoltà, in questa sfuggente individualità risiede la paradossale bellezza di questo disco: è imprendibile, è di un’ambizione talmente ingombrante da sconfinare nel masochismo, e per tutto questo rappresenta una sfida che è stimolante porsi.
Se ai nastri di partenza dell’omonimo esordio “Verdena”, il grunge targato Seattle era l’inevitabile e morente metro di paragone, in “Wow” le carte sono rinnovate e mischiate, creando una matassa ugualmente derivativa ma a suo modo inedita, e non più districabile. Muove dal cantautorato stonato e psicotico di Syd Barrett, e ne ingentilisce parzialmente l’acidità con un approccio che guarda a Battisti e Bianconi. Poi butta tutto nel fango sludge di Motorpsycho e Kyuss, e condisce l’intingolo con elettricità acid-pop tra MGMT e Animal Collective, derivazioni 60’s che pescano dal “White Album” dei Beatles e coretti à la Beach Boys disciolti in un magma psichedelico che resta la cifra ultima di questo lavoro.
Perché l’apertura è affidata alla dolcissima ballata “Scegli Me”, ma non mancano schiaffi dal sapore quasi industrial come “Mi Coltivo”. Ci sono le distorte chitarre stoner di “Attonito” ma anche le infiltrazioni di archi in “Per Sbaglio”. E all’eleganza dello spagnoleggiante giro di chitarra acustica di “Razzi Arpia Inferno e Fiamme” fa da speculare contraltare l’organizzata baraonda di “Rossella Roll Over”. È un ottovolante di contaminazioni e incroci, che mischia infimo e sublimo, rumore e melodia, arte e caciara. Ad esempio: “Miglioramento”, col suo basso in discesa e le piccole svisate prog, potrebbe essere stato scritto dagli Arcade Fire, “Le Scarpe Volanti” pare un tributo a Battiato, “Adoratorio” echeggia vagamente gli Air. Tutto è ibridazione, contagio e omaggio, cadendo nella tana di un Bianconiglio pensato da Wayne Coyne dei Flaming Lips.
Ognuno dei tre componenti dà qualcosa di imprescindibile: Luca dimostra una volta di più di essere tra i batteristi migliori di Italia (sentire i tempi di “La Volta” per credere), Roberta firma delle linee di basso memorabili – una su tutte quella wave di “Loniterp”, che non casualmente è l’anagramma di Interpol – e Alberto qui più che mai è pianista prima ancora che chitarrista. In generale l’equilibrio raggiunto tra ricchezza di ispirazione, platea di riferimenti e sintesi nell’incrociare stili e generi diversi è qualcosa di (forse) irripetibile.
Un capitolo a parte meritano i testi, da sempre croce e delizia sia dei fan che dei detrattori dei ragazzi di Albino. Le parole sono prese e spennellate sopra le melodie, ora assecondandola e ora invece creandola. Si procede con il consueto approccio dadaista del gruppo: per libera associazione di idee, seguendo i suoni anziché la logica. Il significato è accessorio, e le parole sono scelte e cesellate per la loro valenza fonetica prima che semantica. Vale a dire che il cantato non dice sostanzialmente niente, e non si staglia mai al di sopra di questa bambagia lisergica che pervade tutto il disco. Una cosa che può anche legittimamente infastidire, perché per tutto quanto appena detto se si provasse a bere uno shottino ad ogni “te” e “poi” piazzati a fine verso si andrebbe in coma etilico dopo due pezzi (tre in caso di un ascoltatore particolarmente avvezzo all’alcol). Il missaggio, come già era avvenuto nei capitoli precedenti, segue l’andazzo ed è molto particolare: la voce sembra sempre un pelino sotto i suoni, quassi fosse uno strumento aggiunto, spesso e volentieri nemmeno centrale nell’economia dei pezzi.
“Wow” è il disco che prende di nuovo per mano la provincia di Bergamo e la porta in un posto ancora nuovo. Perché ha il sapore di un drum rollato davanti a una birra ai tavoli en plein air dell’Edoné e anche la grandezza di un’opera rock intesa totale, seguendo un solco che va da “Tommy” e “Quadrophenia” degli Who e arriva fino a “Timothy’s Monster” dei Motorpsycho. Ha mostrato a tutti che tre ragazzi della nostra provincia non solo potevano farcela davvero, ma potevano ambire a una Grandezza rock che sempre più è appannaggio di pochi.