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“Transagonistica”: una storia di calcio e transizione di genere

Recensione. Con un ritmo da serie TV e una scrittura sensibile e capace di restituire la complessità dei temi che affronta, il romanzo d’esordio di Gabriele Galligani racconta una storia non facile da raccontare, che avvicina due mondi estranei solo in apparenza: il calcio e la disforia di genere

Lettura 4 min.

Il mondo del calcio (maschile) è un pianeta alieno. Non ci sono giocatori dichiaratamente omosessuali (eppure esistono), non c’è traccia di diversità per quanto riguarda l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Il mondo del calcio è ancora una “cosa nostra” (di chi? Dei maschi etero): granitica, ben codificata, esclusiva. Quantomeno nell’immagine che offre di sé. E di cui sembra addirittura compiacersi, talvolta. Come tra le righe del noto caso di discriminazione in occasione della Partita del Cuore: il vittimismo autoassolutorio che si trasforma nella solita colpevolizzazione della vittima, se non in intimidazione, è solo una delle storture con cui ancora dobbiamo avere a che fare. Eppure, per quanto tribale e monolitica sia quella realtà, deve pur contenere il mondo per come lo conosciamo: con le sue sfaccettature, le sue diversità. E sappiamo che è così.

Sotto la crosta di ogni contesto in cui domina il tradizionalismo (misogino e omofobico, in questo caso) si nasconde sempre un piccolo o grande altro che non può manifestarsi liberamente per quello che è, spesso a causa di timori assortiti o addirittura per un senso di pericolo. E qui sta parte del dramma. Soprattutto quando la discriminazione non si configura tanto come un potere che cade dall’alto (nessuna legge o regolamento impone che i giocatori di calcio siano eterosessuali, ad esempio) ma come un dispositivo che regola l’attitudine e i principi relazionali di tutto un sistema, a partire dalla base (i giocatori in questo caso, ma anche i tifosi). Qualcosa che è molto potente, e che evidentemente lo diventa ancora di più in un contesto in cui la promiscuità dei corpi maschili è all’ordine del giorno.

Non a caso il bergamasco (ma residente a Berlino) Gabriele Galligani in “Transagonistica” sceglie questo contesto per ambientare quella che lui stesso definisce una storia di “transformazione”. Perché se il sistema-calcio discrimina le donne e gli omosessuali, figuriamoci la disforia di genere di un giocatore che non si riconosce nel corpo che gli è toccato in sorte. Il contesto è ingombrante ma è un pretesto, un detonatore al servizio dell’indagine psicologica (e per certi aspetti sociologica) su una persona in cerca di una nuova identità di genere e sulle risposte che, di conseguenza, riceve dal mondo che la circonda. Affiancare una storia simile al calcio serve ad allargarne la misura, a risaltarne gli aspetti.

Devis, fin da giovanissimo, è una promessa. Marcato stretto da un padre ingombrante che su di lui proietta i propri sogni infranti, vive come una condanna il talento che lo ingabbia quanto il corpo in cui, col passare del tempo, scopre di non riconoscersi. Da adolescente arriva a frequentare un’accademia che gli apre le porte del professionismo. Quando la carriera nel calcio che conta è ormai lanciata, succede qualcosa che implica una rottura, prima di tutto con sé stesso. Qualcosa che può affrontare nell’unico modo in cui il contesto in cui si trova gli permette di farlo: abbandonando tutto e sparendo.

“Non è usuale lo spettacolo di migliaia di mani sugli spalti che si sollevano a contare le stelle in campo. La conta risulta sempre in difetto e quel gesto dello stadio intero concretizza l’assenza scesa tra di loro. Sono le 15:41 di una delle tante domeniche calcistiche, quando l’arbitro segnala che un giocatore non c’è più”.

Da qui Gabriele Galligani sviluppa le vicende del protagonista. O meglio, di tre protagonisti (il giovane Devis, la Trav-O e Viola) che raccontano un’unica storia di vita, tra formazione adolescenziale, transizione di genere e ricerca di una forma di redenzione nella vendetta. Lo schema narrativo è tripartito e articolato in diversi piani temporali che si intrecciano in una struttura complessa, frastagliata, dove anche la forma gioca volentieri con diversi punti di vista e con elementi paratestuali: interviste, pagelle sportive, verbali, un excursus che si rivolge direttamente al lettore. E proprio al lettore è lasciato il compito di collegare i punti nella costruzione di un disegno complessivo che si svela in itinere, e di cui si ha un’immagine completamente tersa solo in fine. Un congegno che dialoga con il percorso di costruzione dei personaggi stessi.

La lingua è precisa e lo sguardo dell’autore smaliziato ma delicato, a tratti di una sensibilità davvero squisita. Ci sono una piacevole attenzione alla messa in scena delle vicende e un’impostazione cinematografica nello stile che rivelano come il testo sia stato inizialmente concepito per lo schermo (Gabriele è anche sceneggiatore) prima di essere ri-lavorato all’interno della “Bottega di narrazione”, il laboratorio di scrittura creativa diretto da Giulio Mozzi.

“Sono cresciuto così: per me il calcio va oltre la mia vita. È la mia “non-vita”, perché non ho fatto altro da quando sono nato. È come se mi avessero sistemato su due binari dai quali non sono mai uscito: non posso avere un’idea di quel che ho perso. Al di fuori di questi binari non ho esplorato altro, neanche me stesso. È come un lungo sogno che dura finché dura il gioco. Se smettessi, mi sveglierei e troverei la vita vera, ma chi ha il coraggio di svegliarsi?”

Il cuore del romanzo è il rapporto con la corporeità, la percezione di sé stessi mediata (e falsata) dalla percezione degli altri, la costruzione di un’identità che fa i conti con un disagio e un’insicurezza intensi quanto la volontà di riscatto e di affermazione del sé, qualsiasi sia.

Non mancano tuttavia qualche cliché nelle scelte narrative, nell’esigenza di caratterizzazioni talvolta enfatizzate per essere inequivocabili e foriere di quel conflitto che serve a far galoppare l’intreccio.

È anche un rischio calcolato, però: affrontare, utilizzandoli, gli stereotipi che costellano l’immaginario sul mondo della transessualità significa anche dare gli strumenti per riconoscerli e rifuggirli. Il “disegno” che Gabriele traccia della transizione di genere – del percorso fisico, psicologico ed emotivo – dà l’idea di essere fedele e rispettoso della complessità che lo caratterizza. Ed è notevole se a farlo è un autore eterosessuale e cisgenere che non abbia un vincolo testimoniale con le vicende che racconta.

Anche quest’ultimo aspetto-satellite è interessante. Pare infatti che il romanzo (un esordio, ricordiamolo) sia stato rifiutato da case editrici, e in ogni caso avesse meno appetibilità editoriale, poiché non è la testimonianza diretta di un’esperienza. “Non si può decidere solo in base alla qualità del romanzo, mi interessa sapere se tu sei militante LGBTI o meno, se le cose che racconti le hai vissute davvero...” si è sentito dire Gabriele, come ha raccontato durante una presentazione online. Secondo il principio del rifiuto, il romanzo sarebbe meno interessante (leggasi: spendibile sul mercato) perché non testimoniale.

E non stupisce. È sempre più frequente che l’attivismo diventi posizionamento di mercato, e la diversità, i diritti oppressi o l’appartenenza a una qualsiasi minoranza siano sfruttati come fattori differenzianti per creare o aumentare il valore di un prodotto – o ampliarne il target di riferimento. A queste condizioni, presentare un proprio autore/autrice come “scrittore/scrittrice transgender” o poter catalogare un romanzo che parla di transizione di genere come “storia vera/non-fiction”, commercialmente, può fare davvero la differenza.

Battaglia Edizioni ha guardato semplicemente alla qualità del romanzo, e ci ha creduto. Bravi: avete fatto bene.

Sito Battaglia Edizioni

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