“Comincio questo viaggio d’Italia senza preamboli. Parto dall’estremo nord, con l’intento di scendere fino a Pantelleria regione per regione. Sono curioso dell’Italia, degli italiani e di me stesso; che cosa ne uscirà, non saprei anticiparlo”.
Comincia così “Viaggio in Italia” di Guido Piovene (l’accento è sulla prima e), la monumentale opera di giornalismo narrativo con cui lo scrittore veneto è riuscito in un’impresa che è ancora senza pari a quasi settant’anni di distanza: realizzare un reportage di viaggio, tra il 1953 e il 1956, per raccontare le diversità d’Italia del Dopoguerra e raccoglierle in un’unica opera, cristallizzandole in una dimensione che sopravvive al tempo. Ci parla di struttura sociale ed economica, di politica, folclore, cultura, di rapporti tra classi, degli enormi cambiamenti che coinvolsero il nostro Paese, delle sue malattie infantili che oggi sono diventate senili.
Certo, ogni presunzione di universalità o di esaustività è (quasi) sempre velleitaria: “lo stabile e il transitorio sono entrambi relativi” scrive Piovene nell’introduzione, consapevole che ogni cosa muta nel momento stesso in cui è, “e non possono sempre dividersi con taglio netto”. Siamo d’accordo. Eppure il “Viaggio”, nato come programma radiofonico per la RAI prima ancora che come opera letteraria, sembra capace di delineare elementi che sono ancora lì settant’anni dopo, come fossero immanenti e avulsi dalle onde della Storia pur essendo inevitabilmente legati ai suoi moti – “dovunque sorge un’industria, si trasformano gli animi”. Piovene sembra essere riuscito a fare una radiografia di un corpo: quello ingrassa o dimagrisce, invecchia, si sciupa, ma lo scheletro rimane grosso modo lo stesso.
Lo si evince con il senno di poi naturalmente, testando la freschezza del testo oggi. E facendo parte di una delle comunità raccontate. “Che cosa ne uscirà, non saprei anticiparlo” scriveva lui, giustamente prudente. Ma è evidente che con la sua tappa a Bergamo – cominciamo a restringere il campo – Piovene sia stato capace di cogliere l’essenza del territorio e della gente, i rapporti di forza, i vezzi, l’andatura del passo con cui camminiamo il tempo. Ai minimi termini ma arrivando al nocciolo. Le sue osservazioni sono valide tutt’oggi. Il pezzo è invecchiato bene, come si direbbe.
“Terra lombarda che sogna il Veneto” dice di Bergamo, ma con qualcosa in più, con la “severità meditativa”, la “parlata ruvida” e “i lazzi delle montagne”. Quella che intercetta Piovene è una Bergamo in cui la separazione tra città alta e bassa è già tratteggiata nelle grandi linee che conosciamo: “La vita moderna, grandi negozi, uffici, poteri pubblici, è discesa a Bergamo bassa; quella alta ospita negozi più piccoli, botteghe d’artigianato, popolino, turisti, famiglie aristocratiche nei loro palazzi, e il vescovo sulla cima”. Popolino a parte – la gentrificazione è cosa più recente – più o meno ci siamo.
Come tutta Italia, agli inizi dei Cinquanta la città è in preda a grandi trasformazioni. Vanta una crescita demografica “per natalità” prolifica rispetto ad altre province. L’architetto Luigi Angelini, responsabile del recupero e della conservazione delle vecchie case di Città Alta, racconta a Piovene la nuova ondata edilizia che “nasconde le sue minacce all’estetica” e che ha implicato lo sfollamento di numerose famiglie verso la città bassa.
Ed è proprio quando Piovene parla della gente che il racconto si fa ancor più interessante. Accenna a una specie di “oscillazione tra l’estro e la praticità, tra il realismo ed il sogno, tra la follia geniale e la prosa metodica” che ha permesso di conservare più che in qualsiasi altra zona del nord Italia, quello che definisce “gusto artistico”. Intende la capacità di conservare un “colore di vita popolare dei vecchi tempi”: “la provincia di Bergamo non odia il proprio pittoresco, come oggi quasi tutte le province italiane, in cui si direbbe che il popolo scorga nella sua distruzione un segno di ascesa sociale”.
Piovene apprezza “la rozzezza” del “popolaresco vero”. Qualcosa che sente mancare altrove, e che fa di Bergamo “una delle grandi patrie delle maschere popolari”. Arlecchino e Gioppino (“grossolano ma veritiero”) come esempi più fulgidi di quella capacità del popolo bergamasco di “umorizzarsi nelle sue stesse disgrazie e infermità”. “Le mangiate, le bastonate, le parolacce, i lazzi, la caricatura pesante. E tale è appunto la mistura del Bergamasco, provincia artistica ma montanara, in cui l’influenza veneta è sempre tagliata di prosa, di praticità lombarde”.
Immancabile il Donizetti, che ha alimentato la passione per il melodramma “che si vena di aristocrazia. E poi le osterie, i canti alpini, la poesia vernacola, la “persistenza del costume e del pittoresco antico, o meglio la relativa lentezza della sua sparizione sono proprie delle città di stampo clericale”. Bergamo città democristiana, roccaforte del clero come Trento e Vicenza, un clero che “però non è innovatore e di tendenze riformiste” (papa Roncalli romperà un po’ questa tradizione).
C’è poi il rapporto con il lavoro, con la politica, e tra classi sociali. E anche qui lo sguardo di Piovene centra un altro aspetto davvero enigmatico della cosiddetta provincia bianca. “La forza di Bergamo [nel Dopoguerra] è soprattutto industriale, e il suo contadino è quasi sempre anche operaio”. “Il dominio democristiano è sicuro, perfino nel centro industriale di Dalmine alle porte della città. ‘Le nostre maestranze’ mi ha detto un dirigente della Dalmine, ‘non vivono concentrate, ma sparse in 215 Comuni diversi, dove ritornano la sera. Perciò sono diluite in un ambiente moderato, e conservano le modeste usanze dei Comuni rurali’. È la regola del Bergamasco, provincia dove mancano le grandi concentrazioni operaie, industriale ma con mentalità contadina”.
Insomma, non male per qualcuno che ha passato solo qualche giorno nei dintorni. Anche per questo vale la pena recuperare il “Viaggio in Italia” e conservarlo nella propria biblioteca, a pronta disposizione per conoscere e conoscerci meglio, anche al di là di Bergamo. Onore alla profonda sensibilità dell’autore, ma soprattutto anche al metodo: andare sul campo, incontrare i corpi delle persone, immergersi in ciò che si vuole raccontare, predisporsi all’ascolto e alla rielaborazione di ciò che si è osservato con onestà. Sembra scontato, ma c’è un gran bisogno di recuperare questa tradizione giornalistica.
Riferendo di una conversazione con un prete, Piovene fa un commento che è un manifesto: “La trascrivo senza commenti, perché nulla, ritengo, è più efficace della semplice trascrizione”.