Quando un libro diventa un best seller dobbiamo chiederci quantomeno perché. Il discorso vale per “Finché il caffe è caldo”, secondo libro di Toshikazu Kawaguchi che in Giappone ha venduto più di un milione di copie – anche il precedente “Basta un caffè per essere felici” era andato bene – e ha fatto numeri importanti anche da noi, per la gioia di Garzanti che l’ha pubblicato a marzo 2020, durante il lockdown. Ora arriva a Fiato ai Libri, per la voce di Lucilla Giagnoni e la chitarra di Pierangelo Frugnoli.
“Finché il caffe è caldo” non è un libro disimpegnato, come spesso si liquidano i titoli che vendono molto, e non è nemmeno un libro leggero. Semmai è un libro lieve, ma tutt’altro che “rilassante”, come mi ha detto il libraio che me lo ha venduto (male). In realtà, con una scrittura lineare, semplice, mai tortuosa, Kawaguchi parla di dolore, amore non corrisposto, sorellanza mancata, malattia e morte. Tutto passando da un caffè in quello strano bar senza finestre, ma sempre fresco d’estate, che permette di sedersi su una sola sedia e andare indietro nel tempo o, si scoprirà durante la lettura, anche avanti.
La figura retorica del flashback (o del flashfoward) negli ultimi anni va molto di moda: ci sono tantissime serie tv che si basano su questo meccanismo che muove e motiva la narrazione. “Finché il caffe è caldo” non è da meno, colleziona una dietro l’altra una serie di vicende sul tempo, il rimpianto, la gioia di un’istante: Fumiko, che non è riuscita a convincere il ragazzo che amava a non partire per l’America; Kotake, che vede il marito ammalarsi di Alzheimer, fino a non venire più riconosciuta; Hirai, in perenne conflitto con la sorella Kumi, che fa di tutto per convincerla a tornare a lavorare nella locanda di famiglia a Sendai – sino a morire in un incidente stradale, proprio mentre andava per l’ennesima volta dalla sorella ribelle e anticonformista; e Kei, malata di cuore dalla nascita, che vuole scoprire cosa ne sarà di lei e della bambina che ha in grembo dopo il parto che ne metterà a rischio la vita, l’unica a voler andare nel futuro.
Ci sono delle regole per viaggiare nel tempo, la più importante riguarda la durata del proprio viaggio, che può protrarsi solo fino a quando il magico caffè che trasporta nel passato o nel futuro non si raffredda. C’è anche un fantasma, una donna tutta vestita di bianco, che presidia quella sedia passando il tempo a leggere un libro (forse sempre lo stesso, “Gli innamorati”).
Questa in breve la storia. Ma perché un tale successo? Muovendosi fra passato e futuro in realtà Kawaguchi vuole dirci che è il presente soprattutto che conta, perché il passato non si può mutare (c’è una regola apposta per questo che impedisce di modificare ciò che è stato) e il futuro, come canta Enrico Ruggeri, è un’ipotesi. La pillola del presente può essere amara, non sempre siamo contenti della nostra vita quotidiana e magari non abbiamo la possibilità di cambiarla. Tuttavia questa pillola amara viene addolcita dall’autore giapponese, con una storia quasi filosofica, a tratti ironica, in cui alcuni dei personaggi hanno una loro piccola eccentricità, in questo locale apparentemente normale, che però nasconde un segreto di cui si può approfittare, ma ci vuole coraggio.
È probabile però che il successo di “Basta un caffè per essere felici” sia dato anche dal suo essere un libro perfetto per i tempi che viviamo. Breve (solo 177 pagine), scritto senza particolari fuochi d’artificio ma tutt’altro che noioso, incentrato su un tema, il tempo che passa, magari poco avvertito ma in realtà fondamentale: abbiamo sempre meno tempo, di leggere prima di tutto (ne parlavamo l’anno scorso con il direttore artistico di Fiato ai Libri, Giorgio Personelli), fra lavoro, scuola, figli, vita famigliare, serie tv (che per molti hanno sostituito i romanzi); ma abbiamo sempre meno tempo in generale, anche se il tempo non si è ristretto (sono 24 ore come sempre). Il problema è che abbiamo tante cose da fare, la società ci chiede di essere sempre più performativi (al lavoro, ma anche con i figli ad esempio) e la vita sembra che ci sfugga dalle mani. Ci perdiamo occasioni importanti, fatichiamo a parlarci, ci lasciamo alle spalle delle fratture con le persone e i rimpianti si accumulano, il dolore anche.
In copertina nell’edizione italiana di “Basta un caffè per essere felici”, c’è una frase classicamente commerciale, che banalizza il senso dell’opera di Kawaguchi: “Un tavolino, un caffè, una scelta. Basta solo questo per essere felici”. Magari fosse così semplice, magari avessimo un caffè dove rivedere le persone che abbiamo perso. Non è così, e tutti abbiamo le nostre assenze con cui fare i conti. C’è una canzone di Ivano Fossati che ad un certo punto dice “E quella volta che noi due era meglio parlarci”. Mi è venuta in mente durante la lettura di “Basta un caffè per essere felici”. E sì, quella volta forse era meglio parlarci.