Più ci si addentra nella lettura de «Il castello», celebre capolavoro di Franz Kafka, più si ha la sensazione di precipitare nell’abisso, schiacciati, assieme al protagonista del romanzo, sotto il peso di una realtà ostile e minacciosa, alienante, che sfugge ai nostri criteri di interpretazione e valutazione. È un po’ lo stesso effetto che provoca «Testimone di ingiustizia» (Edizioni San Paolo, 2020), libro scritto da Marianna F. ed Eugenio Arcidiacono (quest’ultimo giornalista di Famiglia Cristiana e vincitore, nel 2008 e nel 2017, del Premio Vergani), che verrà presentato alle 20.30 di venerdì 31 marzo nella Sala Putti di San Pellegrino Terme.
La storia è quella raccontata in prima persona da Marianna (nome di fantasia) che, agli inizi degli anni Novanta, decide di testimoniare contro la ‘ndrangheta che le ha ucciso due giovani fratelli. Diventare « testimone di giustizia » – ovvero decidere di collaborare con lo Stato fornendo informazioni utili alle indagini – sancisce però l’inizio di un lungo e faticoso calvario, una vita blindata e sotto scorta, piena di paura, a cui, a un certo punto, fa seguito l’indifferenza da parte dello Stato che abbandona lei e i suoi familiari al proprio destino. Uno Stato assente, indelicato, burocratico che, come il castello del romanzo kafkiano, appare imperscrutabile e labirintico. Ma, nonostante questo muro di gomma, Marianna non perde la speranza e la fiducia nelle istituzioni.
FR: Arcidiacono, perché a un certo punto Marianna e i suoi familiari diventano delle persone scomode per lo Stato italiano e da questo, quasi, vengono trattati come parassiti, se non come criminali?
EA: Il motivo è che, per parecchio tempo, la figura del «testimone di giustizia» è stata sovrapposta a quella del «collaboratore di giustizia». La differenza è che il secondo, essendo un criminale, poteva trasformarsi in una preziosa fonte di informazioni, raccontando delitti a cui aveva partecipato, che aveva direttamente commesso o anche solo di cui conosceva l’esistenza: le forze dell’ordine, quindi, dimostravano grande interesse nell’ascoltarlo; il primo, invece, quando aveva finito di riferire quello che aveva visto non aveva più niente da dire, soprattutto quando il processo era terminato. Dopo una sentenza definitiva, un «testimone di giustizia» non suscitava più alcuna curiosità agli occhi dello Stato e, inesorabilmente, finiva spesso per essere abbandonato, posto al di fuori del programma di protezione. Questo, però, succedeva in passato, negli anni in cui si svolgono i fatti narrati dal libro. Ora, fortunatamente, non è più così.
FR: A pagina 81 del libro, Marianna afferma: «La mia vita, la mia dignità di essere umano venivano calpestate una volta di più da parte di uomini dello Stato in cui avevo riposto tutta la mia fiducia». Eppure, a ben vedere, Marianna è l’unica che, dall’inizio alla fine, mantiene intatta la propria dignità.
EA: È proprio così, perché lei è stata ed è una «testimone di giustizia», una persona onesta, normalissima, che ha fatto semplicemente il proprio dovere di cittadina: denunciare eventi criminali a causa dei quali ha perso due fratelli. La storia di Marianna, per certi versi, è simile se non identica a quella di altre persone che si sono ritrovate nella sua stessa situazione. Penso, per esempio, a Pietro Nava, testimone oculare dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Insomma, persone che hanno fatto dell’integrità uno stile di vita ma che, alla fine, sono state abbandonate dallo Stato. Uno Stato che non ha mantenuto le promesse avanzate. Ma è grazie a persone come Marianna, al loro impegno e alla loro dedizione che, nel 2018, è stata approvata una legge che migliora di molto le condizioni dei «testimoni di giustizia». Anche per questo motivo, Marianna ribadisce come non si sia mai pentita della sua scelta e come, dopotutto, nonostante l’incontro con funzionari incompetenti e burocrati senza cuore, continui a mantenere la fiducia nei confronti dello Stato.
FR: A differenza degli eroi dei fumetti che, celando la propria identità attraverso una maschera, emergono dall’anonimato, Marianna, dopo aver deciso di scendere in campo a volto scoperto, è obbligata a nascondersi, a utilizzare un nome fittizio, a scomparire. Marianna perde il proprio nome e con esso, in un certo senso, la propria corporeità.
EA: Tutto il libro si basa su questo. La copertina, fra l’altro, rappresenta proprio Marianna: una figura in penombra che si staglia su una scalinata. È lei, ma non si vede. Anche attraverso questo volume, Marianna, dopo tanti sacrifici (in primis, quelli affettivi), sta cercando di riappropriarsi della propria vita e della propria identità. Spero ci riesca e che un giorno non dovrà neanche più chiamarsi «Marianna».
FR: Marianna non perde però il proprio Io. Un Io che sa attraversare il dolore e che, grazie a una profonda sete di giustizia, sembra quasi fortificarsi. Fondamentale, per la donna, l’incontro con la sorella di padre Paolo Dall’Oglio, Cecilia e, soprattutto, con la preghiera. Quanto è stata ed è importante la dimensione religiosa per Marianna?
EA: Non credo di poter rispondere fino in fondo. Ci siamo infatti incontrati diverse volte, ma ci siamo focalizzati più che altro sulla sua storia. Mi ha comunque parlato della sua fede religiosa, di quanto sia forte in lei e di quanto l’abbia aiutata in tutti questi anni.
FR: La forza di Marianna risiede anche nel suo essere femminile: tenacia e adattabilità, ma anche tanta dolcezza e un profondo senso di libertà e insubordinazione. Ultimamente, questo sentire sembra stia interessando anche le mogli dei boss che, fino a qualche tempo fa, erano complementari alle figure maschili, occupandosi addirittura dell’educazione malavitosa dei figli, tramandandone codice d’onore e sentimento di vendetta. Accade che siano le donne, ora, a denunciare padri e mariti, mettendosi contro i capi clan. È un po’ il dramma di Antigone che si ripete?
EA: Sì, è proprio così. Esistono codici molto precisi all’interno della ‘ndrangheta che, a differenza di Cosa Nostra, non si struttura a livello verticistico e piramidale, ma a livello familiare. Sono le famiglie che, imparentandosi fra di loro, generano le cosche e i clan. È questo fortissimo legame di sangue che contribuisce a incrementare segreti e omertà. Fino a poco tempo fa, dunque, era difficile che una moglie denunciasse il proprio marito o che una madre accusasse il proprio figlio. Ma sono passati gli anni e adesso di storie come quella di Marianna ce ne sono diverse, tantissime. Donne giovani, appartenenti alle nuove generazioni che, come Lea Garofalo, desiderano rompere codici e silenzi. Alcune di loro, ora, vivono con i loro figli in un contesto protetto, lontano da quello mafioso in cui sono cresciute.
FR: La ‘ndrangheta si nutre della paura della gente. Come può essere estirpata?
EA: Di alternativa ce n’è una: la presenza dello Stato. Le mafie si propongono come poteri alternativi allo Stato. Il messaggio che vogliono far passare è che lo Stato non funziona, non dà i servizi necessari e quindi provvede lei a dare alla gente quel di cui ha bisogno. Da qui, la pratica del voto di scambio, la politica di inserire persone di fiducia fra le cariche pubbliche. Finché la gente del sud (ma anche del nord, dato che la ‘ndrangheta i maggiori affari li porta avanti in Lombardia) avrà questa mentalità, pensando che le mafie possano essere interlocutori con cui averci a che fare, la ‘ndrangheta non cesserà. È un fatto culturale che si combatte con la scuola e l’istruzione. Ma, come detto, ci deve essere uno Stato forte, che riesca a garantire servizi dignitosi, che funzionino. I ragazzi, in Italia, devono crescere con l’idea che mai bisogna avere a che fare con signori del genere e che lo Stato italiano, con tutti i suoi difetti, è l’unico faro che ti può far camminare a testa alta.
FR: Ci sono state delle difficoltà nello scrivere questo libro? Ha avuto paura?
EA: Le difficoltà sono state logistiche, se così si può dire. È un libro nato da diversi incontri, incontri che si svolgevano, per motivi di sicurezza, in posti diversi. Non ho però avuto grossi problemi a scriverlo, perché Marianna è una persona colta e sensibile, del resto è insegnante e interprete. Per quanto riguarda la paura, un po’ di timore c’è stato. Ma non è la prima volta che mi interesso a certi temi. A tal proposito, credo sia doveroso, per chi fa un lavoro come il mio, occuparsene e occuparsi, prima ancora che della Camorra e di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta, poiché essa è ancora sconosciuta al grande pubblico. Ora come ora, per esempio, si sta svolgendo un grandissimo processo contro di essa e, in queste settimane, le forze dell’ordine hanno fatto un’importante operazione a Gioia Tauro. Ma i giornali non ne parlano. Non si parla quasi mai della ‘ndrangheta. Si parla giustamente di Matteo Messina Denaro ma non della ‘ndrangheta, la più grande organizzazione criminale. La ‘ndrangheta è forte perché agisce nell’ombra, ricorrendo alla violenza solo quando è davvero costretta. A tal proposito, credo e spero che non farebbe del male né a me né a Marianna, poiché non contiamo niente. Io sono un pesce piccolo e quella di Marianna, fondamentalmente, è una storia passata.
FR: Come sta ora Marianna?
EA: Marianna è molto provata, ma sta bene. Qualcosa, finalmente, si sta muovendo e lo Stato è riuscito a vendere la casa di famiglia che avevano in Calabria. La pratica per cercare lavoro sta andando avanti. È ancora dura, ma sta decisamente meglio rispetto a quando ci siamo conosciuti.
FR: Il libro è anche una testimonianza sulla solitudine, un racconto sul tradimento. A fronte di tutta questa violenza, di tutta questa ingiustizia e di tutto questo dolore, cosa rimane? Davvero ne è valsa la pena?
EA: Assolutamente sì, ne è valsa la pena.