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«Stiratore di luce» di Franco Stelzer: piccole ossessioni piene di poesia

Articolo. Edito da hopefulmonster, è il libro vincitore dell’edizione 2024 del «Premio Narrativa Bergamo». Al centro, la storia di Bodo, adulto-fanciullo affetto da un ritardo mentale che scopre l’amore e la meraviglia dall’interno di una vecchia stireria

Lettura 3 min.

C’è una delicatezza balsamica in questo racconto di Franco Stelzer, vincitore della quarantesima edizione del «Premio Narrativa Bergamo», proclamato lo scorso 27 aprile. Poco più di un’ottantina di pagine, un’esperienza da concentrare anche solo in un’unica seduta di lettura, nella migliore tradizione delle narrazioni brevi. Ed è una specie di viaggio antidotico che disintossica lo spirito e l’immaginario dalla sofisticazione di certe narrazioni contemporanee, siano letterarie o videografiche, con l’ansia dell’emplotment, dei concatenamenti causali, degli snodi narrativi, dei personaggi-agenti che devono far correre la storia, dei linguaggi pirotecnici e contaminati, del massimalismo espressivo. Con Bodo e il suo piccolo mondo mitteleuropeo siamo proprio in un altro campo da gioco.

Bodo è affetto da un ritardo mentale, è un adulto-fanciullo costretto a prendere dei farmaci che lo tengono in equilibrio ma che ne disinnescano la vivacità, innanzitutto fisica. Di lui il narratore ci dice poco, e con poche parole, ma giuste e precise. Non sappiamo quanti anni abbia, quale sia il suo aspetto, non sappiamo nient’altro di quanto non riguardi la vita nel piccolo universo che lo circonda.

Bodo vive con la madre nei pressi del Lorettoberg, un crinale montuoso a sud di Friburgo. Insieme lavorano nella vecchia stireria di famiglia, un posto d’antan in cui ancora si fanno le cose alla vecchia maniera, col ferro da stiro e le lenzuola da piegare a mano. Hanno anche un piccolo mercatino dell’usato per arrotondare i conti. Un ambiente sicuro e protetto che la madre gli ha costruito attorno, e dove Bodo svolge il suo lavoro quotidiano con la stessa dedizione appassionata e zelante del signor Hirayama, il solitario protagonista del recente film di Wim Wenders «Perfect Days»: la liturgia del quotidiano, la profondità quasi spirituale della piccola gestualità, l’unicità dell’ordinario, la meraviglia dello sguardo sulla marginalità delle cose – come a interpretare la qualsiasità zavattiniana o la poetica del regista giapponese Yasujiro Ozu, cui lo stesso Wenders si è ispirato: apologia non dei “luoghi qualsiasi”, ma delle abitudini qualsiasi, di tutto ciò di cui si compone un’esistenza non-eccezionale, ma pur sempre unica.

E Bodo sembra proprio uno di quei personaggi-fanciulli del neorealismo, testimone-osservatore dallo sguardo vergine e puro, luminoso appunto, di cui Stelzer ci presta occhi e sensibilità – la sensibilità profonda di chi soffre un ritardo mentale – con i quali guardare e percepire il mondo come forse non siamo più abituati a fare. Il mondo ritratto dallo sguardo di Bodo è pieno di piccole ossessioni che si riempiono di poesia: «Delle camicie, apprezza tanto il momento in cui si fanno assieme una parte della schiena e del davanti. La cucitura laterale gli dà sicurezza. Perché è come un confine. C’è un territorio, e Bodo vi entra sicuro da entrambe le parti».

Quello di confine è un concetto che penetra tutto il racconto, diventandone quasi un tema portante, seppur subliminale. Il confine è una soglia che unisce e separa, uno spazio liminare e di passaggio. Lo è la vetrina della stireria, verso cui precipitano gli sguardi dei passanti e attraverso cui Bodo, da dentro, getta lo sguardo sul mondo fuori. Ed è proprio per il tramite di questa soglia trasparente che si innamora di una donna dai riccioli neri, una cliente francese che con la famiglia vive temporaneamente di fronte al negozio, e che indugia spesso di fronte la vetrina in attesa del tram.

A questo punto è il desiderio di lei che lo renderà capace di superare un altro confine, quello tra la Germania e la Francia, per raggiungere Belfort – a piedi, durante la notte, in solitaria – il paese dove hanno fatto ritorno la donna e la sua famiglia. È un limite anche fisico, quello da vincere , evidentemente. Ma con Bodo perfino l’impossibile sembra a portata di mano, come se la logica del mondo “normale” – fatta di limiti e confini – non contasse nulla di fronte alla dedizione per la felicità che si nutre di semplicità, e di fronte alla capacità di rinnovare quotidianamente la meraviglia dello sguardo, la profondità delle piccole cose.

Bodo raggiunge la Planche de Belles Filles di cui le aveva parlato la donna dai riccioli neri: «Arrivato nel centro dello spazio più rado, solleva lo sguardo verso il cielo. Il fogliame trema di luce. Tra le biforcazioni dei rami, gli appare di nuovo quel volto luminoso. Bodo gli sorride, beato». È nel fogliame tremante di luce che vede l’oggetto del suo amore. È qualcosa che, di nuovo, collega Bodo al signor Hirayama di «Perfect Days», e alla sua abitudine di fotografare quotidianamente le chiome degli alberi. Un’abitudine spiegata da Wenders solo nel finale, simbolicamente dopo i titoli di coda, con il riferimento alla parola-concetto «Komorebi», ovvero «la parola giapponese per lo scintillio di luci e ombre creato dalle foglie che ondeggiano al vento. Esiste solo una volta, in quel momento».

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