Negli ultimi anni il fenomeno dei musicisti che scrivono libri ha connotato non poco il mercato editoriale. Praticamente non c’è quasi cantante che non abbia rilasciato il proprio volume, più o meno biografico, più o meno narrativo, per fans e curiosi. Ma sono poche le opere che si salvano dalla fuoriuscita massiva di pubblicazioni e che avrebbero avuto ragione di esistere anche se non fossero state firmate da questo o quel musicista.
Ci hanno provato, ad esempio, con esiti altalenanti il grafomane Vinicio Capossela (l’esordio “Non si muore tutte le mattine”), l’apocalittico Francesco Bianconi (il secondo tentativo “La resurrezione della carne”) e tanti altri, ma chi scrive salverebbe, fra quelli letti (non tutti, impresa impossibile), solo “I vivi” di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, un piccolo libro di più di dieci anni fa di racconti ben scritti e capaci di tenere attaccato il lettore alla pagina, e le due opere fino ad ora pubblicate dal songwriter gianCarlo Onorato, a mio giudizio fra i migliori scrittori italiani: il conturbante romanzo “Il più dolce delitto” (2006) e il vertiginoso saggio “Ex. Semi di musica vivifica” (2013), prosa tutt’altro che paratattica, slancio lirico, tensione continua verso un non detto di amore, morte e cosmogonia.
Fatte queste premesse, non stupisce una certa perplessità del sottoscritto di fronte al quarto libro de Il Bepi, firmato però Tiziano Incani, quale tentativo di romanzo d’esordio. Titolo kafkiano, “Il castello” (Silele edizioni), e perplessità smentite già dopo poche pagine. Incani sa il fatto suo: divide le 358 pagine della narrazione in 54 agili capitoli, evita disgressioni eccessive, procede lineare affascinando chi legge e soprattutto s’immerge – come del resto nei suoi dischi – nella provincia bergamasca più profonda, ma con una storia dal sapore fantastico e inizialmente “borgesiano” (virgolette d’obbligo per segnare una debita distanza).
“Il castello” in realtà non è un castello, ma un insieme ravvicinato di parallelepipedi trasparenti di diversa lunghezza e colore (il colore è solo nei contorni), sonanti ciascuno una nota diversa (dettaglio che andrà assumendo sempre più importanza durante la narrazione) e attraversabili poiché vuoti all’interno (ad ogni contatto con un corpo il “rumore” cambia). Un’ispirazione leggera dal monolite nero dell’odissea spaziale di Kubrick? Può darsi, sta di fatto che il Castello appare e scompare in giro per il mondo, ad un certo punto si presenta di frequente sul territorio bergamasco, e tutti si chiedono il perché, fanno congetture, esprimono preoccupazione se non paura. Le tv ci marciano sopra, i giornali anche, entrambe con quel fare capriccioso per cui in un attimo un fatto diventa un evento megagalattico e un attimo dopo più nulla. Insomma, è uno scherzo o è l’Apocalisse?
Una certa voglia di congetture l’ha anche il protagonista del romanzo, Carmelo, musicista ai box (ma ripartirà ad un certo punto del libro) e proprietario-gestore di un piccolo teatro di un paese non meglio precisato (auspichiamo in Val Seriana). Carmelo è insofferente al mondo e un tantino depresso da quando è morta la sua cagna Selva, che va a trovare percorrendo le salite montane vicino al paese, immalinconendosi sempre di più ed evitando il più possibile qualsiasi contatto potenzialmente affettivo (ma si sa che la carne è debole).
Ad un certo punto si presenta al suo teatro Valerio, regista, attore, comico che propone uno spettacolo proprio su Il Castello, immaginando che sia popolato da un gruppo di alieni che parlano in bergamasco. Lo spettacolo funziona, Valerio passa velocemente da un teatro di provincia all’essere una star in tv, mentre fa amicizia con Carmelo, sempre fermo e meditabondo fino a quando non arriva la possibilità di un concerto-evento della sua band, i Melo & the Pomes, a Bergamo per Ferragosto.
Senza andare oltre nel riepilogo della trama – che risulta godibile e senza momenti di stanca – ciò che colpisce ne “Il Castello” sono essenzialmente due cose. La prima è la capacità di Incani di sondare quella provincia cronica bergamasca con un uso della lingua che mescola bergamasco (con note a margine), italiano e quel mix di dialetto e italiano bergamaschicizzato che già è molto presente nelle canzoni del Bepi e che qui attraversa situazioni comiche (come quelle del Bar Calendula, con quel personaggio straordinario che è il Ranza) ma pure affettive, malinconiche e misteriose: tutte accomunate da una verosimiglianza che dà un marcia in più e rende credibile la narrazione. Incani ha aggiunto un po’ di fantasia (Il Castello) a ciò che probabilmente vede ogni giorno dove vive. E lo ha fatto con quel “Proud” (per citare il titolo del primo libro del Bepi), ovvero con quell’orgoglio, verso una terra laboriosa, alcolica, silenziosa ma anche intraprendente e viva che rifugge ogni cliché o luogo comune.
La seconda mossa vincente è il personaggio di Carmelo. A cui capita un qualcosa – la morte di qualcuno di caro, fosse anche un cane – che lo congela in una solitudine rimuginante, voluta e inevitabile. Carmelo, narrativamente parlando, funziona perché all’interno della narrazione popolare de “Il Castello” ci si affeziona a lui, ma ci si arrabbia pure in certi e si vorrebbe soprattutto che quella melancolia che lo affligge scomparisse come scompare il Castello. A volte non ci vuole molto a scrivere un buon libro che non sia un capolavoro: bastano una bella storia, l’utilizzo sapiente della lingua con cui raccontarla e l’umiltà di sedersi al pc con la volontà non di stupire, ma di convincere.
“Il Castello” verrà presentato l’11 di settembre nel pomeriggio alla Fiera dei Libri di Treviglio e alla sera allo Spirito del Pianeta presso la Fiera di Bergamo.