Si dice che il lupo perda il pelo ma non il vizio. Un proverbio che applicato alla solitudine assume uno strano significato, epifanico rispetto al nostro presente. È un lupo l’ex ispettore Ennio Guarneri, protagonista de “Il vizio della solitudine”, l’ultimo romanzo di Raul Montanari (Baldini&Castoldi). Un lupo solitario che è stato cacciato dalla polizia perché ha toccato uno che era meglio non toccare, Alan Bertani, figlio dell’avvocato Bertani grande amico del Questore. Non ha amici, ma solo una storia d’amore fallita – e forse mai cominciata veramente – oltre al silenzio della sua casa dove non entra nessuno, perché lui sembra non aver bisogno di nessuno e la sua solitudine (forse) è una scelta. Unico pallino: rifare tutte le elementari in un unico anno con l’aiuto della sua insegnante di allora, la dolce maestra Girelli.
Un giorno però si ritrova ad assistere alla preparazione dell’omicidio a freddo di un egiziano (che si scoprirà poi essere uno scafista) da parte di un nigeriano, che invece fa parte di Han, un’organizzazione segreta di giustizieri di scafisti e altre persone che fanno soldi sulla pelle dei migranti. Il lupo interviene, ammazza il nigeriano e lascia fuggire l’egiziano. Non sa realmente a cosa sta assistendo, ma ha un’idea di giustizia tutta sua, soprattutto come in questo caso, dove la legge non arriva. Da lì la sua vita cambia del tutto: Han vuole vendetta e sarà l’ambiguo detective Velardi a chiedergli di diventare un killer su commissione per l’organizzazione o di aspettarsi d’essere ucciso.
Ennio insomma si ritrova in un vortice di paura e violenza che lo porterà a perdere il pelo, cioè a misurarsi con sé stesso e a ritrovarsi nudo: la sua vita, i fallimenti, la solitudine. Che a questo punto non è più una situazione voluta ma imposta, pericolosa. Oscura, com’è la sua esistenza adesso. Un’oscurità attraversata dal bagliore di una ragazza giovane che suona al suo campanello per vendergli una copia di Lotta Comunista. Guarneri si innamora perdutamente, con tutto il carico di illusione e caducità che può esserci in una storia d’amore fra un cinquantenne in crisi e una ragazza giovane in cerca della propria strada.
Sono esattamente trent’anni (esordio nel 1991 con “Il buio divora la strada”) che Raul Montanari pratica la difficile arte del noir. Verso la fine degli Anni Zero lui come altri (Giuseppe Genna, Andrea Fazioli, Gianni Biondillo, Grazia Verasani, giusto per citare alcuni nomi) cominciarono a parlare di post-noir, un sottoinsieme del noir per alcuni, un genere a sé per altri: di certo uno scostamento dal genere noir, nome prestato dal cinema di metà Novecento alla letteratura, come variante del poliziesco – o più precisamente dell’hard boiled – che Montanari è stato fra i primi a portare in Italia dagli Stati Uniti.
Ne “Il vizio della solitudine”, un libro saldamente noir nell’impianto, potremmo dire che post-noir è “noir dell’anima”, a tal punto che l’io narrante non è l’autore bergamasco ma lo stesso Ennio Guarneri, che racconta la sua storia in un diario – ed è straordinariamente capace Montanari nel rendere la scrittura tutt’altro che selvaggia di un ex-poliziotto con l’amore per la lettura.
L’omicidio e ciò che ne consegue, la voglia di rifare le elementari, l’innamoramento, la solitudine ancora. Guarneri usa la forma del diario – introdotto per ogni capitolo da una serie di brevi immagini in corsivo: quasi una scarica di lampi coscienziali, o forse l’intervento interstiziale dell’autore – per confessare la sofferenza e l’inquietudine per lo stato delle cose: in primis a sé stesso e poi a un tu che, come per ogni diario che si rispetti, non c’è.
In questo “Il vizio della solitudine” è in tutto e per tutto un romanzo noir ma anche post-noir. Dice di un tema, l’isolamento nella massa, che va oltre i fatti di sangue – narrati con quella giusta dose di tensione che non annichilisce l’interiorità del protagonista – per parlare a tutti di tutti. In una megalopoli come Milano che con le sue periferie di palazzi come alveari e le migliaia di automobili con un solo conducente a bordo è la città della solitudine per eccellenza. Troppo grande, troppo diversa fra centro-salotto e periferie dove nascondere la polvere sotto il tappeto. Troppo individualista secondo l’etica neoliberista dominante – e in questo senso quanto Bergamo, e l’Italia tutta, si sta milanesizzando?
“Sono cresciuto nei luoghi del mio ultimo romanzo ‘Il tempo dell’innocenza’: Niguarda e la testoriana Mac Mahon. Non potrei immaginare uno dei miei ‘post-noir’, thriller sulle vite normali senza commissari o serial killer, in Duomo o al Sempione. Racconto la Milano delle case popolari, il dignitoso squallore dei quartieri dimessi com’era l’Isola prima che diventasse di moda. Mi commuovono le persone che devono costruire il proprio destino da zero”, diceva così Raul Montanari ad Annarita Briganti di Repubblica nel dialogare sul suo romanzo di allora, “Il tempo dell’innocenza”, nel 2012 (la citazione è ripresa dalla Treccani).
La periferia diventa così il luogo disvelante della solitudine, dove i legami d’amore si sfilacciano, le amicizie vengono sostituite dai silenzi, la socialità (dello sport, della cultura, del tempo libero) magari costa troppo e nelle fogne le tracce di cocaina testimoniano una diffusa mancanza di senso. Non rimane che riscrivere Quasimodo guardando i passeggeri in metropolitana: “Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto dal blu digitale del suo device / ed è subito sera”. E chiedersi se la solitudine oggi possa essere sempre un vizio o ci lasci inesorabilmente senza pelo.