Dal 4 ottobre al 1 novembre 2024, il villaggio operaio di Crespi d’Adda, sito Unesco in provincia di Bergamo, ospita la sesta edizione di «Produzioni Ininterrotte», il festival di letteratura del lavoro. Il borgo iconico, tuttora abitato e simbolo del lavoro industriale, accoglierà 17 appuntamenti gratuiti tra incontri con autori, talk e performance che si terranno presso l’«Unesco Visitor Centre» di Corso Alessandro Manzoni. L’evento offre al pubblico uno sguardo approfondito sul tema del lavoro attraverso prospettive storiche, artistiche e culturali, con particolare attenzione alle voci femminili.
Tra gli ospiti più attesi, domenica 20 ottobre alle ore 11, ci sarà la giornalista e scrittrice Annalisa Monfreda, che presenterà il suo ultimo libro «Quali soldi fanno la felicità?» (Feltrinelli, 2024). Monfreda, già direttrice di noti magazine e cofondatrice della piattaforma «Rame», affronta in questo saggio il tema del denaro, spesso circondato da tabù e silenzi, invitando i lettori a metterlo centro della conversazione, con l’obiettivo di trasformare la relazione con i soldi e, potenzialmente, cambiare il sistema economico che ci governa. Un invito a rivedere i concetti di ricchezza e benessere, offrendo uno sguardo critico e consapevole su un tema spesso evitato. L’abbiamo intervistata per un approfondimento.
CD: Nel tuo libro precedente, hai affrontato il tema del carico mentale che grava sulle donne. Nell’ultimo libro, il denaro diventa un altro strumento di oppressione, influenzato da stereotipi di genere e retaggi culturali. Pensi che la consapevolezza e la gestione del denaro possano contribuire all’autodeterminazione femminile?
AM: Il tema del denaro era presente nel libro precedente un po’ come una questione non citata che tornava periodicamente negli studi per quel lavoro. Mi sono resa conto che stavo parlando di coppia, relazioni e società, ma sotto c’era un tema economico importante che non stavo affrontando. Questo libro mi ha permesso di indagare quel sistema. Il modello economico capitalista in cui viviamo funziona sul presupposto che nella coppia ci sia una persona dedicata completamente al lavoro e assorbita da esso. Quindi ci vuole un’altra persona che si occupi di tutto il resto, perché nessuno di noi può vivere lavorando in solitudine; abbiamo bisogno di una serie di servizi.
L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha messo in crisi questo sistema che nasce all’inizio dell’Ottocento. Noi donne ci siamo entrate continuando a fare anche tutto il resto, il che ha portato a una svalutazione della nostra posizione. Veniamo pagate meno, perché viviamo in un modello in cui la donna si fa carico di tutto, di conseguenza, vale meno sul lavoro. Andare alla radice di questo modello è la chiave per riorganizzare la relazione di potere all’interno della coppia.
CD: Quindi pensi che per raggiungere equità di genere sul piano finanziario sia necessario un dialogo interno nella coppia?
AM: Anche, in modo concreto. Dobbiamo discutere che valore portiamo all’interno della famiglia. Spesso sappiamo quanto entra nella coppia e in che percentuale uno dei due contribuisce. Nella maggior parte dei casi in Italia, contribuisce più l’uomo. Questo dice il modello capitalistico, che ha svalorizzato il lavoro di cura. Ma abbiamo il coraggio di chiederci quanto valore abbia questo lavoro di cura? Ci sono storie nel libro di persone che lo hanno fatto in modo efficace, calcolando il corrispettivo economico per il lavoro di chi è rimasto a casa. Lo stesso deve valere quando il motivo è un figlio piccolo. Spesso è la donna a rinunciare al lavoro (su questo ci sarebbe un altro tema da aprire), ma raramente si fanno adeguate valutazioni economiche. Il concetto è: «Va bene, io resto a casa. Tu non solo mi devi mantenere, ma devi darmi l’autonomia di mantenermi». Perché con la rinuncia al lavoro la donna non sto solo rinunciando a un’entrata oggi, ma avrò una pensione più bassa e farà fatica a rientrare nel mondo del lavoro in futuro. Vanno considerare tutte le implicazioni economiche di una scelta.
CD: Come credi che il contesto familiare influenzi la nostra relazione con i soldi?
AM: È un argomento trattato in un capitolo del libro. La nostra socializzazione economica, cioè la relazione con il denaro da ragazzini, condiziona il nostro attuale rapporto con i soldi. Molti pensano che la socializzazione finanziaria sia solo una questione di scelte attive. Quelle scelte valgono, ma è anche ciò che traspare in famiglia dai discorsi e da come i genitori vivono i soldi a determinare il nostro approccio. Trasmettiamo educazione finanziaria ai figli ogni volta che tiriamo fuori la carta di credito o reagiamo quando dobbiamo pagare le tasse. Se lo facciamo in modo arrabbiato, stiamo passando un messaggio. Anche senza azioni consapevoli, stiamo educando finanziariamente i nostri figli.
CD: Qual è il tuo pensiero riguardo alla tendenza a non discutere apertamente di denaro e come pensi sia possibile scardinare questo tabù?
AM: Si può pensare che sia una caratteristica della società italiana, ma in realtà il tema del denaro è un argomento che riguarda tutto il mondo occidentale, seppur con sfumature diverse. Parlare di soldi non significa semplicemente chiedere «Quanto guadagni?», ma affrontare un tema più profondo. Questo tabù ha origini culturali, affondando le radici nelle prime filosofie e religioni. Oggi ci troviamo in una situazione in cui armonizziamo sia la ricchezza che la povertà, giungendo alla conclusione che è meglio non parlarne.
CD: C’è anche una sorta di vergogna?
AM: Non solo. La vergogna nasce in una società dove il valore delle persone è legato a quanto guadagnano. In Italia, si osserva anche la vergogna di avere soldi, poiché c’è una narrazione che ci induce a vergognarci del privilegio. In altre situazioni possono sorgere altre emozioni, come la paura di perderli.
La cultura aristocratica che ha sempre cercato di evitare il tema del denaro, non parlarne era un modo per proteggere ricchezze enormi frutto di predazione. Rendendo volgare l’argomento, nessuno osava attaccarle. Quando poi i borghesi sono saliti al potere, hanno iniziato a normalizzare il discorso sui soldi.
CD: Perciò dici che il silenzio sul tema alimenta le disuguaglianze nella società?
AM: Sì, siamo arrivati al punto in cui non parlare di soldi ci danneggia profondamente. Questo favorisce i ricchi perché, non parlandone, facciamo il gioco di chi li possiede. Non discutere di quanto siamo pagati ci porta a non allearci per chiedere salari più equi. Ci vergogniamo di risparmiare nei supermercati e non condividiamo queste informazioni, mentre se lo facessimo, avremmo vantaggi per tutti. Anche il tema degli investimenti viene visto come complesso, ma solo pochi hanno accesso a questo sapere, mentre tutti potremmo beneficiarne investendo e facendo lavorare il nostro denaro.
CD: Il portale «Rame.it» di cui sei cofondatrice fornisce educazione finanziaria e supporto a persone e aziende. Qual è stato l’impatto più significativo che hai osservato nella trasformazione delle relazioni con i soldi sui membri della community?
AM: «Rame» offre informazione e formazione. La cosa che emerge dai feedback è come gli utenti si sentano per la prima volta liberi dell’ansia finanziaria. Grazie a questo percorso, hanno potuto dedicare uno spazio della giornata, della settimana o del mese a gestire le proprie finanze. Questo semplice atto di occuparsi dei soldi ha alleviato un peso. Se parlassimo di soldi come si fa normalmente all’aperitivo, scopriremmo di non essere soli nei nostri debiti o nelle difficoltà.
Molti hanno bisogno di un podcast che li faccia sentire meno isolati. Entrando nella community e nel gruppo Telegram possono fare domande e confrontarsi. «Rame» ha offerto loro l’opportunità di non sentirsi soli, riscoprendo il senso di collettività che la nostra società ha perso.
CD: Quali strategie suggeriresti per rendere l’educazione finanziaria coinvolgente e accessibile?
AM: Credo che la chiave stia nella normalizzazione dell’argomento. Dovrebbe partire dalle scuole, dove già stiamo implementando progetti specifici. La consapevolezza economica è fondamentale nella nostra società attuale. Le generazioni più giovani sono già più inclini a discutere apertamente di questi temi e noi dobbiamo supportarli in questo.
È questione di costruire una cultura in cui parlare di soldi diventi normale e positivo. Se non sfruttiamo questa opportunità con i giovani di oggi, rischiamo di perdere un’intera generazione. La nostra responsabilità è quella di proporre un racconto che presenti il denaro come uno strumento per realizzare il proprio potenziale e avere un impatto positivo.