È una voce leggera e gentile, quella che nell’ultimo libro di Raul Montanari, «Più grande di noi. Confessioni di un pescatore a mosca» (Hopefulmonster editore, 2022), accompagna il lettore in prima persona dall’inizio alla fine. Volendo essere un po’ azzardati, la si potrebbe definire «inglese». Eppure, se questa voce così pulita ed essenziale e, per certi versi, umoristica, riporta vagamente alla mente i romanzi di Gilbert K. Chesterton e di Jerome K. Jerome, indubbiamente quel che annuncia, se così si può dire, è qualcosa di profondamente americano, che ha a che fare con scrittori del calibro di Thoreau, Hemingway e ovviamente Richard Brautigan.
Già, perché questa riflessione sulla pesca a mosca (racconto autobiografico e piccolo trattato filosofico) è neanche troppo velatamente una metafora della vita, un modo di essere. Oltre il conformismo della società e della ragione, un inno alla libertà, dal retrogusto anarchico ma sempre garbato, che nel suo piccolo fa rima con le sterminate praterie del Colorado e con le rocambolesche avventure di Tom Sawyer.
Sogno, acqua, vita
Ma dove nasce questa passione per la pesca a mosca? Tutto inizia con un sogno, fatto dall’autore quando aveva sette anni. «Scendevo nella cantina della mia casa a Milano, che mi faceva sempre un po’ paura. Il corridoio della cantina, pieno di polvere e ombre e illuminato da nude lampadine gialle, si rivelava straordinariamente lungo. Anzi, scoprivo che sotto la città doveva esserci tutta una ramificazione di cantine collegate fra loro, un labirinto sotterraneo che nel sogno percorrevo per giorni e giorni. Vedevo enormi ragni neri che avevano costruito tele triangolari di lato alle porte, negli angoli dei soffitti, e continuavo a camminare in silenzio. Alla fine, quel mondo infero sboccava in una grande caverna dal soffitto a volta, e al centro c’era uno stagno scuro dove nuotavano a fior d’acqua pesci di ogni genere e dimensione. Molti erano pesci fossili visti in un’enciclopedia che […] mio padre aveva comprato: fossili viventi, voglio dire, pesci africani o creature degli abissi che, secondo l’enciclopedia, avevano lasciato esterrefatti i biologi che li consideravano estinti da milioni di anni. Insieme a queste creature mostruose vedevo lucci, persici, carpe, tinche, anguille, i classici pesci di acqua dolce che avevo imparato a riconoscere perché all’epoca si trovavano ancora, spesso vivi e guizzanti, nelle cassette umide dei mercati rionali».
Una passione generata da una fascinazione: quella per l’acqua, intesa come liquido amniotico universale, custode della memoria, in cui il tempo risulta sospeso e in cui presente e passato si inseguono in un’incessante corsa. «È chiaro che il fatto che io sia nato in riva a un grande lago del Nord Italia è stato decisivo per questa fascinazione nei confronti dell’acqua. Il mio lago è il Sebino, il lago d’Iseo; il paese si chiama Castro, millequattrocento anime, e sta proprio lassù in cima, a nord, vicino al punto in cui l’affluente – il fiume Oglio che da sempre diverte i bambini per l’assonanza con l’olio dell’insalata – sbuca dalla Valcamonica e irrompe nell’immensa distesa dai colori cangianti. Quando ci torno ancora oggi, il porticciolo mi offre lo stesso spettacolo che vedevo negli anni in cui abitavo lì: uomini di ogni età seduti sulle panchine o appoggiati alla ringhiera che corre lungo tutta la sponda, gli occhi fissi sul lago. Certo, parlano fra loro di vivi e di morti, o di politica, mescolando i massimi sistemi alle cronache della prostata o della cataratta. Si voltano anche a guardare le ragazze, questi vecchi bergamaschi con le mogli a casa, ma la loro attività principale è scrutare il pavimento d’acqua che ha il cielo come soffitto, la scenografia delle montagne, le onde che la brezza sta sollevando, le barche che si scorgono in lontananza […]. Quanto senso può dare alla vita di uno di questi paesani, il lago? Quanto diventa parte di lui? Glielo leggo negli occhi questo amore ostinato, duraturo. Il lago, il grembo di acqua scura, imperscrutabile, in cui si sono depositati i loro sogni e le loro paure quando erano ragazzi, e poi gli amori, le prime sconfitte, la stanchezza, l’allegria».
Da qui, Raul Montanari racconta la sua prima volta con la canna da pesca (regalo chiesto alla nonna, suggellatore di una dolcissima intesa intergenerazionale) e con il lago (cornucopia di profondità e meraviglie), il luogo del cuore (che ancora oggi viene chiamato semplicemente «Le Barche»), l’aiuto, durante la sua prima battaglia con i pesci, datogli da un esperto e saggio vecchietto, la rivalità dal sapore melvilliano con lo scaltro cavedano, la concezione della corrente come quarta dimensione (che «scombussola le misure e, inevitabilmente, tutta l’azione ne risente»), nonché lo stratagemma di fare del proprio passatempo preferito un «luogo sicuro» (per combattere le crisi di panico).
Insomma, la pesca è per il narratore un luogo dove mettere radici, certo, ma anche un’idea e, soprattutto, un serbatoio di senso che lo inizia alla vita e con cui riempie le estati lontane dal capoluogo lombardo. «La pesca spalancò orizzonti impensati e diede un altro significato, anzi proprio un altro contenuto, alle mie estati. Pescavo solo da luglio a ottobre, a Castro, sul lago, ma pescavo tutti i giorni e tutto il giorno. Andavo al mattino, concedendomi una pausa solo verso le dieci per farmi fare un panino con la mortadella nella bottega di alimentari sul porto. A mezzogiorno tornavo a casa, sbrigavo in mezz’ora i compiti per le vacanze, brandivo la canna ed eccomi di nuovo sul lungolago, di cui arrivai a conoscere ogni sasso».
Il fiume
Più l’autore cresce (immergendosi nell’esistenza e mutando le proprie aspirazioni e le proprie esigenze materiali e fisiologiche), più il luogo che lo circonda pare conformarsi al suo sentire. Fondamentale, a tal proposito, l’incontro con il fiume e, in particolar modo, con l’Adda. «Quell’acqua non era più il liquido amniotico simboleggiato dal lago, non più la culla ma ciò che l’aveva preceduta: l’impazienza del liquido seminale, l’urgenza, la pulsione che cerca sfogo e si incanala fra le sponde».
Il fiume è anche simbolo dell’incontro (in primis, con sé stessi) e di quello spazio, ideale e reale, in cui si consuma il panta rei di eraclitea memoria, in cui eros e thanatos si inseguono in un gioco infinito, ma anche in cui si manifesta tutta la solitudine, l’ingenuità e l’inadeguatezza del Montanari giovane uomo. «La riva era in pendenza, gli alberi si aprivano in una minuscola radura, e lì c’erano un uomo e una donna nudi, su quella che mi parve una coperta […]. Lui scivolò giù lungo il corpo della donna e mise la faccia fra le sue gambe. Lei rise, così mi sembrò, rovesciò indietro la testa e gli accarezzò la nuca con tutt’e due le mani […]. Provai un senso di solitudine così acuta […], che camminai veloce, sguazzando con gli stivali finché gli alberi non coprirono del tutto lo spiazzo […]. Avevo appena fatto capolino sull’argine, ansimando, quando un’automobile comparve avvolta dalla polvere e da un silenzio innaturale […]. L’auto si arrestò a una ventina di metri da me. La portiera si aprì e scese un ragazzo […]. Venne da me, e io pensai: “Ora mi uccide. È venuto a uccidermi”. Non so perché ma pensai questo […]. Forse ero turbato per la scena che avevo spiato poco prima, senza volerlo, ma come poteva un’immagine di amore fra due corpi suggerirmi un’idea di morte?».
La pesca a mosca
E la pesca a mosca? Un tipo di pesca che, per l’autore, è prima di tutto quasi un’epifania («La pesca a mosca sta alla pesca in generale come gli scacchi stanno agli altri giochi da tavolo: è l’unica ad avere una cultura»). Essa è per l’appunto una forma di cultura e apre scenari (storici, etici, rituali…) interessanti: un confronto primitivo e pulsionale con la vita e con il cosmo, un sentimento d’amore.
«[…] io vado a pesca per catturare i pesci. Non per ucciderli o mangiarli, perché ormai da trent’anni li libero con tutta la gentilezza possibile […]. Cosa vuol dire catturare? Entrare in contatto fisico, corporeo, brevissimo, con queste creature misteriose che vivono al di là dello specchio […]. Perché la pesca è la vita come dovrebbe essere: un universo in cui l’esperienza conta più della tecnologia […]».
Una vibrante dialettica tensiva e volitiva. «Voglio vederlo, il pesce: voglio che dalle acque emerga questo animale guizzante che dell’acqua sembra quasi il concentrato, questa creatura che pare fatta d’acqua… acqua che si è fatta muscoli, nervi, fauci e pinne e volontà di sopravvivere. Voglio riempirmi gli occhi di questa vita […] e poi restituirla al suo mistero». E ancora: «Voglio toccare il cuore stesso del mondo, compenetrarmi con esso […]. Solo così la mia vita, e la mia morte, acquistano senso».
Metamorfosi, scrittura, ricerca
La gioia più grande, comunque, è il momento in cui il pescatore trasmette il proprio sapere al proprio allievo (un figlio, un nipote, un amico, una fidanzata…) che poi, forse, potrà diventare un compagno di pesca. E come la commedia umana della vita conta tanti attori differenti, così di compagni di pesca ce ne sono diversi, con manie e caratteri particolari, come, per esempio, il nostalgico, lo scaramantico, il mitomane, il solitario, l’iracondo, il complottista, il poeta. Esatto, il poeta. Del resto, non è necessario scomodare la Materia di Bretagna o l’esegesi cristiana per sottolineare quanto la figura del pescatore, come quella del poeta, sia vocata al ruolo di medium fra una dimensione e l’altra. Un personaggio della soglia e della metamorfosi, che nell’azione violenta di cacciare si prende cura al contempo del creato (facendosi suo guardiano e contribuendo al mantenimento dell’ordine naturale delle cose).
Ma se il pescatore può essere associato al poeta, significa allora che la pesca può essere messa in relazione alla poesia e, più in generale, alla scrittura? Raul Montanari (che augura a sé stesso una fine in stile «Big Fish» di Tim Burton) pare darci qualche indizio sin dall’inizio del libro, quando parla del suo sogno d’infanzia: «La visione mi riempiva di emozioni violente, traboccanti, che non avrei saputo definire. Era come se una parola decisiva fosse lì lì per essere pronunciata, un significato stesse per svelarsi ai miei occhi di bambino […]. La rivelazione non si diede […]». La pesca come il processo creativo; la caccia di un pesce raro, quindi, come la ricerca di una parola pura, irraggiungibile, a cui ci si può solo avvicinare. Ma si sa: il senso di un viaggio non si trova nel suo compimento.