N el 2018 il cantautore Brunori SAS , uno dei più quotati fra i songwriters delle ultime generazioni, fu il protagonista di un programma televisivo su Rai 3 in seconda serata, “ Brunori Sa ”, cinque puntate incentrate su cinque temi differenti per raccontare la generazione dei quarantenni a cui il musicista cosentino appartiene, con ospiti e ovviamente musica. L’annuncio del programma venne fatto molto prima, nel 2017, con un post su Facebook che includeva un frammento video con Daria Bignardi , allora direttrice di Rai 3 (il post risale al 28 giugno di quell’anno; Bignardi, per la cronaca, si sarebbe dimessa da quel ruolo il 25 luglio).
Perché racconto tutto questo? Perché Dario Brunori commentò la notizia con un post scherzoso (“ L’anno prossimo avrò un mio programma su Rai 3. Mi sa che a ’sto giro mi tocca pagare il canone... ”) che, al di là dell’opportunità della dichiarazione, è tutt’altro che un dettaglio innocuo: in realtà dice molto di un fenomeno che negli ultimi vent’anni è andato allargandosi . Una forma più o meno nuova di storytelling che non prevede più una distanza, un’alterità , fra artista e pubblico, ma un avvicinamento, complici i social network, fra chi dovrebbe essere l’autore e chi il fruitore: “ là fuori c’è tanta gente che il canone non lo paga, o lo paga a malavoglia (tanto da essere reso obbligatorio per legge), e fra questi ci sono anche io ”.
In poche parole potremmo riassumere tutto questo nella frase “ Io sono come te ”, una sorta di “normalizzazione” dell’artista rispetto al pubblico: un meccanismo che non vale solo in quest’ambito, ma ad esempio coinvolge anche la politica, come per la famosa comunicazione simmetrica di Matteo Salvini su Facebook, la cosiddetta Bestia del social media manager Luca Morisi (oggi non più ai comandi per questioni giudiziarie archiviate), che prevedeva una pubblicazione seriale di post “di pancia”: una volta sugli sbarchi degli immigrati e un’altra su quanto sia buona la Nutella. “Perché anche tu odi i clandestini ma ti piace la nutella, no?”.
Ora, non c’è nessun giudizio artistico o politico in tutto ciò. Ma solo un’osservazione su un mood che accomuna, con tutte le sfumature e le differenze del caso, Brunori Sas e Salvini, Calcutta e Catalano (non è solo per questioni generazionali o di visibilità che i due sono stati coinvolti nel programma di Brunori), Matteo Renzi e Fabio Volo (epifanico il primo, in un suo post del 2015 in cui attende l’esito delle elezioni regionali giocando alla Playstation con Orfini ).
Quel Fabio Volo che di questo articolo è l’origine in forma di domanda, domanda che scaturisce dalla lettura del suo ultimo libro, titolo simil-dantesco, “ Una vita nuova ”: perché Fabio Volo ha così successo con i suoi romanzi? O per dirla in altro modo: ve li immaginate Tenco o De André ironizzare sul canone? No, perché ai loro tempi non c’erano i social network (risposta ovvia) ma soprattutto perché era chiara la distinzione fra pubblico e artista – e se dovevano dire qualcosa sulla tv di Stato i due, come tanti altri, non avrebbero giocato al piccolo cinico, avrebbero sparato contro in modo netto, con rabbia, con ironia tagliente: “ Io non sono come te ”.
Dunque cosa è successo?
Per farla breve si potrebbe dire che sono cambiati i tempi e chiuderla lì. Ma è interessante capire come è accaduto tutto questo – tenendo presente che quella che sto per fare è un’analisi generalizzante, in cui magari ci si può ritrovare, ma non del tutto, oppure non ci si può trovare proprio.
Di nuovo: perché una generazione, quella dei quarantenni – e caso per caso magari anche le precedenti o le successive – ha eletto come proprio riferimento Fabio Volo e la sua attività di romanziere? Qualcuno risponderebbe snobisticamente e in modo forse sbrigativo che si tratta di un’ aurea mediocritas elevata all’ennesima potenza, volgarizzando il termine mediocritas , che tuttavia non vuol dire semplicemente “mediocrità”. Ma, come spiega la Treccani , “aurea mediocrità” secondo la definizione del poeta latino Orazio , ovvero l’ideale classico della misura e della moderazione.
E allora forse sì ci siamo, ma non del tutto. Perché per rimanere a “Una vita nuova” sembra che Fabio Volo sia piuttosto un campione di medietà , se così possiamo dire. Cioè sia capace di fotografare con un nitore eccezionale e senza sbavature quella “crisi dei quarantenni” su cui tanto si è scritto (mancanza di un senso esistenziale, tradimenti, famiglie che si sfilacciano, etc.). E abbia quindi una capacità innata di calibrare “per tutti” le sue storie , lasciando che il pubblico di lettori si rispecchi in esse, a tal punto da dire che sì, una storia così è la mia e l’avrei scritta anche io se ne avessi avuto le capacità. Con l’attenuante però che questa stessa storia mi coinvolge, certo, ma ancor di più mi asseconda . Con un linguaggio semplice, uno stile quasi sempre sul filo della retorica (ma mai del tutto retorico), una narrazione che procede per capitoli brevi e grandi verità, zeppa di perifrasi riprese dal parlato comune e di situazioni che all’incirca “abbiamo vissuto tutti ”. Come se Volo questa storia di due uomini di “una quarantina d’anni e una vita incagliata” ( così recita la presentazione del libro ), che solo un viaggio da nord a sud per recuperare un’automobile disincaglierà e farà rinascere, non la raccontasse in un libro, ma seduti in un pub davanti a due birre : Volo e un ipotetico lettore.
C’è qualcosa di meno sconvolgente e più straordinariamente vicino di tutto ciò? Riusciamo ad applicare questo meccanismo per “ Delitto e castigo ” di Dostoevskij o “ Il processo ” di Kafka ? No, perché in essi possiamo ritrovarci sicuramente, ma dentro quell’abisso di mistero e indicibilità che ci tiene a distanza . Ci sono loro, il russo o il boemo, e ci siamo noi. Ma in mezzo c’è il libro . Un crepaccio insuperabile dove la comprensione è possibile ma mai del tutto. Un taglio alla tela di Lucio Fontana a cui ci si può avvicinare ma senza avere una risposta alla domanda che cosa c’è oltre – e intanto Dostoevskij, Kafka, Fontana ti hanno ghermito, lasciato nudo, rivoltato come un calzino.
Kafka e Dostoevskij non sono rinfrancanti, ma faticosi, complessi, urticanti; Fabio Volo invece è consolatorio, semplice, vellutato. Il poeta portoghese Fernando Pessoa scriveva che “La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta”. Volo risponde indirettamente aprendo il suo libro con una dedica “Agli attimi di leggerezza”.
Il confronto di queste due brevi frasi, che annunciano una divergenza netta e al contempo sottendono che tutto dipende “da cosa si cerca dai libri”, sono forse la chiave di lettura non solo della bravura di Fabio Volo a “essere come noi” ma anche del mood a bassa intensità dei nostri tempi . Musica liquida dalle cuffie isolanti di uno smartphone, ascoltata senza storicità e vero desiderio. Serie tv in binge watching contro la stanchezza e l’angoscia. Libri che raccontano le nostre vite, senza un altrove in cui perdersi e ritrovarsi vertiginosamente, perché persi si è già qui e ora . E un libro, alla fine, deve servire prima di tutto a distrarre e a confortare. Come una pacca sulla spalla prima di andare a dormire. Che forse basta, o forse no.