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Per ogni età c’è almeno un libro (parte seconda)

Articolo. Ai periodi della nostra vita associamo persone ed emozioni. Perché non farlo anche con i libri? Un salto temporale alla riscoperta di quei testi che si sono rivelati importanti per la mia adolescenza

Lettura 6 min.

Per ogni età, c’è un libro. Ma a cosa serve la letteratura? Qual è la sua funzione o, per meglio dire, il suo valore? Finita la prima liceo, non avevo di questi pensieri così profondi. L’unica certezza era il mio amore viscerale per i romanzi. D’altronde, il caos post-puberale che in quegli anni vivevo non era solo quello psicofisico, ma anche quello intellettuale. Le mie letture, infatti, erano piuttosto eterogenee: spaziavano da Fred Uhlman («L’amico ritrovato») a Lewis Carroll («Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie»), da Erasmo da Rotterdam («Elogio della follia») a James Matthew Barrie («Peter Pan»), da Richard Bach («Il gabbiano Jonathan Livingston») a Antoine de Saint-Exupéry («Il piccolo principe»). In quella pulsionale camera magmatica che di nome faceva «adolescenza», si stava plasmando, pian piano, la mia maturità letteraria. A tal proposito, l’incontro più significativo, senza il quale questa mia formazione, probabilmente, non sarebbe neanche iniziata, fu quello con Italo Calvino.

Calvino e Kafka: il labirinto dell’esistenza

A chi, del resto, non piace Calvino? La scrittura leggera ed educata, la vasta sperimentazione narrativa, la vivace genialità, a tratti visionaria: Italo Calvino è stato uno dei più grandi scrittori italiani del secondo Novecento. Se dovessi citarne un’opera (quella che più mi ha scosso dal di dentro), non sarebbe però «Marcovaldo» o «Il cavaliere inesistente» e nemmeno «Se una notte d’inverno un viaggiatore» o «Il sentiero dei nidi di ragno», bensì «La giornata d’uno scrutatore». Perché? Perché è il testo forse più distante, a livello estetico, dal resto della produzione dello scrittore, nato a Cuba nel 1923; un autentico pugno nello stomaco dal sapore “leopardiano”, che obbliga il lettore a fare i conti con l’enigma (e le contraddizioni) dell’esistere, con la caducità umana e, soprattutto, con l’infelicità. La trama è piuttosto semplice: durante le elezioni del 1953, un comunista, di nome Amerigo Ormea (alter ego dell’autore), ricopre la carica di scrutatore presso il celebre Cottolengo di Torino, istituto religioso dov’è ricoverato un gran numero di minorati fisici e mentali.

Lo scopo di Amerigo è quello di impedire che soggetti incapaci di intendere e di volere siano indotti dal personale a votare per la Democrazia Cristiana. Chiuso nelle proprie convinzioni, Amerigo, assistendo alla “sfilata” delle deformità e del dolore, si troverà a mettere in discussione le proprie certezze:

«Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi e bocca aperta in un fermo riso, d’un ragazzo a letto, in camicia bianca, seduto, ossia che spuntava col busto dall’imboccatura del letto come una pianta viene su da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c’era segno di braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-pianta-pesce […] si muoveva su e giù inclinando il busto a ogni “ghiii… ghi…” E il “gaa! gaa!” che gli rispondeva era d’uno che nel letto prendeva meno forma ancora […]». Nonostante i versi degli ospiti, la sofferenza del “Cottolengo” è una sofferenza muta, solitaria, senza catarsi: «Ogni cosa che accadeva nella corsia era separata dalle altre, come se ogni letto racchiudesse un mondo senza comunicazione col resto, salvo per i gridi che s’incitavano uno con l’altro, in crescendo, e comunicavano un’agitazione generale, in parte come un chiasso di passeri, in parte dolorosa, gemente». L’esperienza con la malattia spinge la mente del protagonista a una serie di rassegnate elucubrazioni, che hanno a che fare con la società e con la natura, con ciò che è giusto e con ciò che è sbagliato, con il progresso e con la responsabilità della procreazione.

Eppure, in questo girone infernale, l’umano non si estingue, ma riverbera in piccole epifanie di montaliana memoria: «Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio […] tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto […] in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo». E ancora: «Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero […]. Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città».

L’amore e il riso come pertugi di salvezza, estremi baluardi contro il labirinto dell’esistenza. Un labirinto, quello esistenziale, espresso al meglio da Franz Kafka ne «Il processo»: Josef K., condannato a morte per una colpa inesistente, sostiene interrogatori, cerca avvocati e testimoni, soltanto per giustificare il suo delitto di esistere. In realtà, però, è il mondo stesso a essere un grande tribunale e tutto quello che c’è al di fuori di Josef K. è processo: per questo, quindi, non gli resta che attendere l’ineluttabile esecuzione di un’impietosa condanna senza appello. Una condanna che, a partire dal surreale incipit del racconto, pare già scritta: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato».

La prosa di Kafka è essenziale, quasi chirurgica: evoca al meglio quella sensazione di spaesamento che attanaglia il protagonista, la sua angoscia nello scoprire di essersi trovato, dall’oggi al domani, in un perfido stato di polizia, il quale, come spiega bene lo scrittore Bruno Schulz, non è allegoria di una condizione dell’essere ma «un’autonoma realtà poetica, sferica, chiusa da ogni parte, motivata in sé stessa e acquietata». Se è così, alla fine, fra domande inevase e assurdità prorompenti, la speranza appare illusione e l’imperscrutabile logica della “legge” necessaria e a Josef K., corpo estraneo in una dimensione a lui ormai lontana, non resta altro che soccombere: «Lo sguardo gli cadde sull’ultimo piano della casa […]. Così come balena una luce, i battenti di una finestra si spalancarono, una persona […] si sporse di colpo e tese le braccia ulteriormente in fuori. Chi era? Un amico? Una persona buona? […] Uno che voleva aiutare? […] C’era ancora aiuto? […] Alzò le mani e divaricò le dita. Ma sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei signori, mentre l’altro gli piantava il coltello nel cuore […]».

Joyce e il senso profondo della letteratura

Dopo Kafka (e dopo i miei 15 anni), la “fame” di autori crebbe esponenzialmente: Manzoni, Shakespeare, Hesse, Voltaire, Agostino, Pirandello, Foscolo, Flaubert e naturalmente Italo Svevo (immenso); tuttavia, solo la scoperta di James Joyce (verso i diciott’anni) mi avvicinò ancor più intimamente alla letteratura e alla sua bellezza. Parlo dell’«Ulisse»? Ovviamente, no; mi sto riferendo a «Gente di Dublino»: quindici racconti brevi che non sono altro che la spietata e nichilista radiografia di una città, del suo ambiente e dei suoi abitanti. Ritratti come “paralizzati”, i protagonisti di «Gente di Dublino» sono vittima della propria banale quotidianità (vuota e abitudinaria), dalla quale sono incapaci di fuggire. Il libro segue le fasi dell’esistenza (infanzia, adolescenza, maturità) e si conclude con «I morti» e con queste famose righe: «[…] c’era neve dappertutto in Irlanda. Cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline […]. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto […]. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti».

Io credo che siano stati proprio quei quindici piccoli squarci sull’indicibile a farmi comprendere che una domanda come «a cosa serve la letteratura?» sia, fondamentalmente, un quesito stupido. La letteratura non serve a niente, come a niente, del resto, serve il ricordo di un nostro caro defunto, il braccialetto che sfoggiamo al polso o la rosa di cui, premurosamente, ci prendiamo cura. Ma se davvero, a tutti i costi, si volesse trovare una “funzione” alla letteratura, direi che la letteratura ci spinge a coltivare la vita interiore e a metterci in discussione; ci insegna che non siamo padroni di nulla (e che nulla possiamo controllare) nonché a “vestire i panni dell’altro”. La letteratura, attraverso meraviglia e commozione, cerca di incastrare le asprezze del reale (e del nostro vissuto) in forme di senso profondo e, spingendoci a tenere i piedi ben ancorati a terra (ma gli occhi ritti al cielo), si fa scudo e custode del linguaggio e del pensiero dell’uomo.

Dino Buzzati e la pienezza dell’attesa

Durante l’università, tant’altri autori hanno segnato il mio percorso (Dostoevskij, Stifter, Kleist, McCarthy, Mann, Roth, Bernhard, O’Brien, Wallace…), ma nessuno quanto l’Ignazio Silone di «Vino e pane» e il John Steinbeck di «Furore»: due artisti fenomenali, in grado di affinare la mia sensibilità nei confronti dell’impegno civile e della giustizia sociale. A dire il vero, però, c’è pure un terzo scrittore per me davvero importante: Dino Buzzati. Ne «Il deserto dei Tartari», Giovanni Drogo, ufficiale di stanza presso la Fortezza Bastiani (avamposto militare che sorge ai confini della nazione), consuma gli anni migliori della propria vita in quella che si rivelerà essere un’infinita attesa dal retrogusto beckettiano. In questo libro, attraversato da una crudele malinconia, c’è molto: il deteriorarsi degli affetti e la monotonia dei giorni, l’occasione mancata e l’incomunicabilità del dolore, il rammarico per ciò che poteva essere (e che non è stato) e l’insignificanza del malato (e del morente) agli occhi della “comunità dei sani”.

Su tutto, però, aleggia pure l’inesorabile scorrere del tempo: una tematica potente, poiché ognuno di noi, prima o poi, fa i conti con quel che, sul proprio cammino, ha (o non ha) compiuto: «Era l’ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che […] non si sarebbero verificate mai […]». Il rischio, a un certo punto, è quello di prendere coscienza che, per timore o per routine, non si ha vissuto appieno. Eppure, alla fine, l’ufficiale pare accogliere la morte con serenità, in pace. E ciò, forse, perché anche una vita spesa nell’attesa non è una vita sprecata; è proprio la preparazione all’evento atteso a renderla ricca, feconda, colma di pienezza: «Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».

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