Il primo, se non erro, fu «Il libro della balena» (Arnoldo Mondadori Editore, 1990): me lo ricordo bene, con quei suoi colori brillanti e accattivanti – bianco e rosso, ma soprattutto giallo e azzurro – e con quel titolo di copertina sinuoso (e quindi rassicurante) che, non so perché, ora come ora, assocerei alla confezione di una qualsiasi barretta al cioccolato anni Ottanta. Concepite più per essere guardate che lette, le sue (poche) pagine erano «plasticose» (morbide e lisce, anzi: soffici, direi), ideate per resistere all’acqua dei primi bagnetti ma, probabilmente, anche alla saliva di morsi innocenti, quelli con cui un bimbo appena nato, inevitabilmente, comincia a conoscere il mondo che lo circonda.
La storia, più che altro alcune descrizioni alle immagini, metteva in scena l’incontro fra un capitano di nome Jack (alquanto buffo) e una balena completamente blu, sorridente e benevola. Forse, la mia sconfinata passione per il mare e per tutto ciò che ha a che fare con la vita marinaresca nasce proprio grazie a questo piccolo volume. Chissà. Nella preistoria della mia infanzia targata anni Novanta, però, ci sono stati tanti altri libri che, significativamente, hanno segnato il mio cammino e che, ancora adesso, porto gelosamente nel cuore.
Penso, giusto per citarne qualcuno, a «Il lupo all’asilo» (Zaira Zuffetti e Paola Bona, Vita e Pensiero, 1992), a «Una storia magica» (Emanuela Bussolati e Anna Curti, La Coccinella, 1994) e, naturalmente, a «Meg alla fattoria» di Helen Nicoll e Jan Pieńkowski (Arnoldo Mondadori Editore, 1988). Testi anche molto diversi fra loro, ma che, in comune, avevano disegni dal tratto chiaro e preciso e tinte – a volte pastello, a volte sgargianti – sempre sognanti, in grado di stimolare la sensorialità e di mettere in moto la fantasia.
Da Giusi Quarenghi a Roald Dahl: la pedagogia della fantasia
Una fantasia che, senza volerlo, sapeva essere anche pedagogica. È il caso de «Il carro armato dal cuore tenero» (Gino Gavioli, Edizioni San Paolo, 1994), un inno al pacifismo e all’ecologia, ma, soprattutto, di «Sete di vampiro» (Giusi Quarenghi e Elettra Riolo, Franco Panini Editore, 1993), libro al quale sono molto affezionato perché legato inscindibilmente alla figura di mia madre (persona che mi ha trasmesso l’amore per la lettura, per la parola e per le cose belle): quante volte lo abbiamo letto e riletto assieme!
Questo è il suo incipit: «C’era una volta un bambino che aveva sempre sete e voleva inventare un bicchiere d’acqua per poter calmare la sua sete in qualunque posto e in ogni momento. Era un bambino normale, che abitava in una casa normale, in un paese normale. E c’era anche un altro bambino, che doveva avere sempre sete di sangue, e voleva inventare un bicchiere di sangue per non dover vagare tutte le notti alla ricerca di un collo giovane e tenero in cui ficcare i denti, e per convincere i suoi genitori che era degno di loro. Era un bambino vampiro, che abitava in un castello di vampiri, non molto distante dal paese normale dove abitava il bambino normale». Entrambi i bambini partono dunque all’avventura poiché «[…] avevano letto abbastanza libri di fiabe per sapere che, quando si vuole qualcosa di speciale, bisogna mettersi in viaggio».
Alla fine, i due si incontrano, fanno amicizia e si scambiano dei doni: il bimbo normale offre al vampiro la sua borraccia (contenente succo d’arancia rossa), mentre quest’ultimo, in cambio, gli regala un bicchiere magico, sempre colmo, all’occorrenza, di acqua invisibile («[…] il bambino normale riprese la sua vita normale, rilassato dal fatto d’aver sempre a disposizione un bicchiere d’acqua per la sua sete […]. Anche il bambino vampiro riprese la sua vita da vampiro, rilassato dal fatto d’avere sempre a disposizione un bicchiere di sangue»). In questo piccolo romanzo di formazione di neanche cinquanta pagine, attraverso ironia (e pure un po’ di nonsense), ci sono tematiche davvero interessanti: il coraggio dell’allontanamento e della ricerca, la sfida all’ignoto e alla paura, la fiducia in sé stessi, la libertà della scelta (oltre le aspettative soffocanti dei propri genitori), il rispetto per l’altro (complementare a noi) e per le sue diversità e, quindi, la naturale crescita emotiva dell’essere umano.
Ad ogni modo, senza dimenticare «Cipì» di Mario Lodi e «Il giornalino di Gian Burrasca» di Vamba (da cui, probabilmente, la mia insofferenza verso il potere e le ingiustizie sociali) ma nemmeno i capolavori di Gianni Rodari o i libri de «Il battello a vapore» (uno su tutti, «Inkiostrik», di Ursel Scheffler), l’opera che ha maggiormente caratterizzato i miei cinque anni di scuola primaria è stata «La fabbrica di cioccolato» di Roald Dahl, regalatami da mia zia all’età di otto anni. Portata sul grande schermo prima da Mel Stuart e poi da Tim Burton, la trama di questo romanzo è ormai nota: Willy Wonka, famosissimo proprietario della più grande fabbrica di dolciumi al mondo, decide di indire un concorso. Cinque tavolette di cioccolato, acquistabili in qualsiasi nazione, celano, al loro interno, un biglietto d’oro: chi lo troverà potrà non solo trascorrere un giorno nella fabbrica di cioccolato ma anche ricevere una provvista di dolci per tutto il resto della sua esistenza. Uno di essi, inoltre, rimarrà padrone della fabbrica.
Fra i fortunati, c’è anche Charlie Bucket: un ragazzino indigente che, in virtù di questa sua difficile condizione, ha compreso come, nella vita, sia bene accontentarsi e rimanere umile. «[…] il povero Charlie Bucket non riusciva mai a ottenere quello che voleva perché la sua famiglia non poteva permetterselo e, man mano che il grande freddo continuava, cominciò a sentire sempre più intensi e pressanti i morsi della fame». Verso la conclusione della storia, sarà proprio lui a essere nominato vincitore dal signor Wonka e a ereditarne la proprietà. Il romanzo di Dahl (di cui possiedo l’edizione Salani del 1988, con traduzione di Riccardo Duranti e le illustrazioni di Quentin Blake) è una finestra fantastica su un mondo grottesco e incantato, ma anche una critica salace alla società dei consumi, ai vizi postmoderni di un sistema capitalistico che alimenta solo sé stesso.
È un racconto a lieto fine innervato di meraviglia e speranza, uno di quelli per il quale, quando lo si è terminato, ci si mette a fissare il cielo in silenzio, in preda alla malinconia. Ma «La fabbrica di cioccolato», a mio avviso, è anche una riflessione su quanto la mancanza di mezzi possa schiudere la dimensione della possibilità e farsi terreno fertile per la creatività: «E ogni giorno, man mano che si avvicinava, il ragazzo levava in aria il nasetto appuntito per aspirare il meraviglioso aroma della cioccolata fusa. A volte si fermava addirittura qualche minuto davanti ai cancelli, ingoiando grosse boccate d’aria, quasi come se tentasse di mangiare quell’odore».
L’esperienza della morte: la letteratura come vita
La mia esperienza con la morte in letteratura avvenne dopo le elementari e fu piuttosto traumatica. No, non mi riferisco né a «Il gigante egoista» di Wilde (mi è sempre piaciuta tantissimo questa fiaba!) né a «Incompreso» di Florence Montgomery (uno di quei libri che, un tempo, consigliavano alle medie) e nemmeno a «Rosso Malpelo» (splendido racconto del mai troppo apprezzato Verga), bensì a «I ragazzi della via Pál» di Ferenc Molnár, acquistato dai miei genitori alla libreria «Enzo Rossi» di Bergamo per la mia Cresima.
Certo, le sfide fra due bande di ragazzini che giocano a fare la guerra è avvincente, come avvincenti sono gli atti di eroismo, i tradimenti, l’amicizia. Lo scimmiottamento (ma neanche troppo) delle dinamiche belliche è fascinoso (da piccini, tutti, più o meno, ci siamo divertiti a brandire spade di legno e a impersonare soldati e condottieri), eppure la commozione per la morte del piccolo Nemecsek – il membro più fragile e meno considerato della banda dei ragazzi di via Pál – spacca in due il cuore.
Quel che più colpisce non è tanto l’angoscia della madre, la sua voce deformata dalla sofferenza e le sue urla disperate, ma la dignitosa compostezza del padre, sarto di professione, in cui traspare l’incomunicabilità del lutto e del dolore: «Poi, repentinamente, un silenzio profondo, dove parve di poter rimanere soffocati. E in quel silenzio, a un tratto, il pianto del babbo. Egli era rimasto immobile fino ad allora seduto sullo sgabello con la testa appoggiata sul braccio. Adesso piangeva. Piangeva senza gridare, sommessamente, come si conviene alla gente matura e seria. Le spalle erano scosse da singhiozzi, ma il poveretto, anche in quel momento, badava alla bella giacca marrone del signor Csetneky, e infatti la lasciò scivolare giù dalle ginocchia perché le lacrime non vi cadessero sopra».
Una descrizione toccante, delicata e, allo stesso tempo, straziante. Più che straziante, crudele (perché ingiusta), invece, è la morte di Tom Robinson ne «Il buio oltre la siepe» di Nelle Harper Lee, libro letto in classe, a tredici anni, con la professoressa di Lettere: a Maycomb, una cittadina dell’Alabama degli anni Trenta (sonnolenta e ottusa), l’avvocato Atticus Finch è incaricato della difesa d’ufficio di un bracciante nero, Tom Robinson, accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza bianca. Atticus, dopo tutti gli approfondimenti del caso, riesce a dimostrarne l’innocenza, ma l’uomo verrà comunque condannato e ucciso durante un tentativo di fuga dalla prigione in cui era detenuto.
Quello di Harper Lee è un libro sul pregiudizio e sull’odio, ma anche sul coraggio e sull’integrità morale, quella del «giusto» di biblica memoria, che non teme gli empi né, tanto meno, l’ignoranza, il conformismo e la cattiveria dei benpensanti. E questo nonostante l’esito del suo agire non sia necessariamente conciliante o vittorioso («Atticus si era servito di tutti i mezzi a disposizione degli uomini liberi per salvare Tom Robinson, ma nei tribunali segreti dei cuori degli uomini non aveva alcuna probabilità di vincere: Tom era morto nell’attimo stesso in cui Mayella Ewell aveva aperto la bocca e urlato»). È la vita e solo la grande letteratura la sa ritrarre in tutta la sua potente tragicità.
Salinger o la fine della preadolescenza
Dopo le medie, ricordo quanto la mia “fame” di libri fosse aumentata. Fu il periodo dei grandi classici (Stevenson, Defoe, Swift, Verne, Salgari, Tolkien), ma anche di J. K. Rowling e di Harry Potter: quante notti insonni “passate” a Hogwarts! Poi, un giorno, durante il mio primo anno di liceo, la professoressa di Lettere mi consigliò un romanzo che non avevo mai letto: «Il giovane Holden» di J. D. Salinger. Credo che, inconsciamente, sia stato questo testo a farmi perdere l’“innocenza libraria” (se così la si può definire) e a indirizzare il mio desiderio verso una letteratura, citando Roland Barthes, non più «di piacere», bensì «di godimento».
Ancora oggi, mi chiedo quale sia l’intimo significato di «The Catcher in the Rye» (questo il titolo originale dell’opera), ma, soprattutto, come Holden Caulfield, anche io mi domando dove vadano le anatre di Central Park quando il lago è «[…] tutto gelato e col ghiaccio sopra». Chi lo sa? Eppure, penso proprio sia stata questa lettura ad aver influenzato la mia crescita letteraria. Una sensazione che, qualche anno più tardi, leggendo «Gente di Dublino» di James Joyce, sperimentai di nuovo. Ma questa, per l’appunto, è un’altra storia.