Rileggere “La Peste” fa uno strano effetto, di questi tempi. Qualcosa che deve aver toccato i tanti (tantissimi, pare) che in questi mesi di quarantena, socialità condizionata e confinamento intermittente hanno riscoperto la vicenda della cittadina algerina di Orano – e dei suoi abitanti – alle prese con una violenta epidemia di peste bubbonica. E sarà ancora più interessante scoprire quale effetto farà rivivere il romanzo, in alcune delle sue parti più significative, “trasformato” su un palcoscenico (come ci ha raccontato Giorgio Personelli, direttore artistico di Fiato ai Libri).
Pubblicato da Gallimard nel 1947, il secondo romanzo di Albert Camus è tornato prepotentemente in vetta alle classifiche di vendita, non solo italiane. Si può stimare che circa la metà delle copie messe a disposizione dal circuito bibliotecario della provincia di Bergamo è attualmente in prestito (ed è una tendenza che va affievolendosi, anche solo rispetto al mese scorso). Alcune biblioteche lo stanno inserendo in catalogo, come fosse una novità.
E a ben vedere non c’è da stupirsi. In epoca di trend topic e di dittatura della notiziabilità non poteva che tornare ad esplodere il romanzo per eccellenza (e uno dei più importanti del secolo scorso) che, in primissima lettura, racconta la cronaca dai contorni nosografici della lotta contro il dilagare di un’epidemia (come “Cecità” di Saramago, del resto, altra perla riscoperta dal grande pubblico in questo 2020).
Eppure dev’esserci qualcosa di più della curiosità, dell’empatia e di tutto ciò che scatena il ritrovare l’esperienza personale e collettiva all’interno di un romanzo. Qualcosa di più di una narrazione su cui poggiare la carta lucida della realtà per misurare la corrispondenza dei contorni tra finzione e attualità.
Certo è che un racconto riesce sempre ad essere più rassicurante della realtà, ad accomodarci nella stessa implicita, distratta, voyeuristica sicurezza che proviamo sedendo nel buio di una sala cinematografica con la consapevolezza che, qualsiasi cosa accada sullo schermo, presto o tardi le luci si riaccenderanno, non sarà più necessario sospendere l’incredulità, tutto sarà finito: angoscia, sconcerto, ansia, insicurezza. Le narrazioni, sotto forma di profezie, confortano anche gli abitanti di Orano:
“Furono quindi quotidianamente consultati con gran profitto Nostradamus e santa Odilia. Ad accomunare peraltro tutte le profezie era il fatto che, alla fin fine, fossero rassicuranti. Solo la peste non lo era”.
Orano, presa in un momento indefinito e immaginario degli anni Quaranta del Novecento, è diventata così la città-allegoria di un presente che trova il riflesso più fedele di sé stesso tra quelle mura chiuse e invalicabili, nelle sue strade deserte e silenziose, nelle ambulanze che urlano, nella quotidianità riconvertita, nei sentimenti personali che spingono per restare in primo piano, nel corpo che “non aveva più diritto alle sue gioie”, nella “esigenza degli affari”, nelle separazioni forzate, negli allontanamenti che conservano la malinconia dell’esilio, e prima ancora nella sottovalutazione e nel rifiuto (“è una follia, non durerà”) e poi nella angosciosa presa di coscienza collettiva, nel lutto mutilato dalla distanza, irrisolto e irrisolvibile, inaccettabile, assurdo.
Orano e le sue vicende rappresentano i limiti, le storture ma anche gli spiragli di redenzione di una società moderna (e di uno spirito del tempo) dove si lavora, si ama e si muore “con la medesima aria frenetica e assente” e che si ritrova a confrontarsi con eventi perturbanti che ne sconvolgono l’equilibrio, la certezza, la consapevolezza, la presunzione di eternità, di prosperità e di controllo del destino.
In questo senso è evidente la potenza di un classico che diventa canone, che fa della pandemia una metafora dell’esistenza, che è materia viva in grado di rinnovare lo sguardo su un mondo che invece non cambia mai: quello degli esseri umani nudi e inermi di fronte alla finitezza e all’incertezza dell’esistenza. E non c’è via di uscita. Il male ne fa parte quanto il bene: eterna, insensibile, ineluttabile banalità. La gioia della guarigione e il corpo morto di un bambino straziato senza pietà dalla malattia: questa è la peste, questa è la vita. “La peste è un continuo ricominciare” fa dire Camus a uno dei suoi personaggi. Ed è proprio nella incomprensibile assurdità della morte improvvisa e spietata portata dal morbo che la pulsione alla vita vibra più forte, e può crescere il seme della felicità, du bonheur. La consapevolezza che, nonostante tutto, vivere la vita porta anche qualche gioia.
“La morte si sconta vivendo” scriveva Ungaretti. E Camus lo ribadisce: si vive senza speranza ma senza rinuncia. Quasi reinterpretando il motto gramsciano, “con il pessimismo della ragione ma l’ottimismo della volontà”. Proprio come Rieux, il dottore protagonista del romanzo, che ripone tutto il possibile nell’onesto senso di responsabilità individuale, nel dovere, nella solidarietà, nel senso civico. Tutto ciò che non richiede eroi, e che conferisce all’eroismo “il posto secondario che deve occupare, appena dopo, e mai prima, l’urgenza generosa della felicità”.