Quando le “Lezioni americane” uscirono nella loro primissima veste editoriale per Garzanti, nel 1988, Italo Calvino non era già più di questo mondo da circa un triennio. Morì a seguito delle complicanze di un ictus, nel settembre del 1985, a soli 61 anni. Proprio nell’autunno di quell’anno avrebbe dovuto tenere un ciclo di conferenze presso l’Università di Harvard, le cosiddette “Charles Eliot Norton Poetry Lectures”, una serie di lezioni che ogni anno, dal 1925, sono affidate a un illustre rappresentante del mondo della cultura o dell’arte.
L’anno scolastico 1985-86 avrebbe visto protagonista Calvino come primo italiano invitato a condurre questa prestigiosa tradizione (nel 1991-92 il turno di Umberto Eco e delle sue “Sei camminate nei boschi narrativi”). Morì poco tempo prima di partire per gli Stati Uniti. “Lezioni americane – Sei proposte per il nuovo millennio” è quindi l’ultimissimo lavoro alla quale si è dedicato. E il suo contributo più noto alla saggistica, che in qualche modo finisce per essere una specie di manifesto testamentario di un metodo, di una disposizione autoriale.
Calvino aveva impostato 6 incontri per mettere nero su bianco altrettante qualità che auspicava non venissero perse nella letteratura del nuovo millennio, e che diventassero strumenti per valorizzarne “la funzione esistenziale”: la letteratura come mezzo di conoscenza del mondo e delle relazioni che lo compongono, l’idea di romanzo come “grande rete”. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità sono le caratteristiche che individua seguendo una specie di ordine di importanza. La sesta, “consistency” (coerenza) è rimasta inespressa, non argomentata proprio a causa del motivo di cui si parlava.
Un’idea di letteratura (e di autore)
Nelle “Lezioni americane” è come se Calvino costruisse un modello (consapevolmente parziale) di predisposizione alla scrittura in fede a una precisa idea di letteratura. Togliere peso al linguaggio, alla struttura del racconto, alle cose che ci circondano senza scadere nella frivolezza o abbandonarsi alla superficialità. Farsi guidare da “criteri di funzionalità”, da una “economia espressiva”. Ritmo e velocità mentale. La metafora del fuoco e del cristallo: fervore e precisione geometrica. L’efficacia rappresentativa, la forza immaginifica delle parole: icastiche, specifiche, memorabili. L’immaginazione come “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere”.
C’è tutta l’essenza di Calvino raccontista e romanziere. Una specie di manifesto testamentario, si diceva. La sua capacità di conciliare profondità e accessibilità, di rendere la qualità popolare, l’autorialità un prodotto di massa. Sembra suggerire: come arrivare a un pubblico quanto più ampio possibile senza svilire i contenuti, senza sacrificare la complessità di ciò che ci circonda e delle tensioni e dei legami che vogliamo raccontare? Prendete queste sei caratteristiche – così come ho provato a metterle nelle mie opere, dice lui – e provate un po’ a vedere cosa viene fuori. Proviamo a mantenerle anche nel nuovo millennio, in questo nuovo tempo in cui non potrà che esistere una realtà intesa come “sistema di sistemi”.
“Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo”.
Le “Lezioni” oggi
Quasi come se ci parlasse nel presente, Calvino si chiede quale sarà il futuro dell’immaginazione nella “civiltà dell’immagine”, intuendo la china che hanno preso le nostre abitudini quotidiane (che si sono spinte oltre ogni previsione). “Oggi siamo bombardati da una tale quantità di immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo”.
Sembra suggerire la necessità di una specie di educazione all’immagine, un po’ come l’educazione fisica nei programmi scolastici. Una pedagogia dello sguardo che si serva, perché no, anche di quelle “proposte per il nuovo millennio”. Perché forse è proprio la loro liquidità, la capacità di uscire dai confini della letteratura e della scrittura, il valore contemporaneo di quest’opera: dimostrarsi applicabili a qualsiasi ambito del mondo della cultura e della comunicazione, in ogni “spazio di rappresentazione”, soprattutto se su larga scala.
Divulgazione del sapere (la musica, per esempio), intrattenimento, infotainment, giornalismo, il racconto della contemporaneità in tutte le sue forme: gioverebbero dell’approccio delineato da Calvino? In realtà sembra persino che tra i problemi di questo “nuovo millennio” vi sia proprio l’aver assimilato (involontariamente) la lezione delle “Lezioni”, ma fraintendendone il significato. E allora la leggerezza diventa frivolezza e sottovalutazione del pubblico, la rapidità sufficienza, l’esattezza conformità, la visibilità saturazione, la molteplicità genericità. Frivolezza, sufficienza, conformità, saturazione visiva, genericità: non sono forse alcune delle piaghe del nostro presente? Non fanno sempre più parte della contemporaneità?
Dal quel piccolo libretto si sente uscire una voce. Una voce che in questo presente riverbera urlando cose come: “considerate e rispettate la complessità delle cose”. Non bianco o nero, cattivo o buono, giusto o sbagliato, ma una gamma di facce e di riflessi intermedi. L’importanza di riuscire a coglierli, di saperli considerare, di metterli in relazione. Senza la gabbia dell’assolutismo, con la consapevolezza delle parzialità di cui è fatta la totalità.