“Quello che è fatto è fatto
Quello che è andato è andato
Quello che è fatto è fatto
Quello che è andato è andato”
(“Gravity”, Steve Von Till)
Da casa mia, prima dei campi, ci sono tre vie parallele, unite da una strada che va verso le coltivazioni. Ad un certo punto questa strada diventa una pista ciclabile non più accessibile con l’automobile. Dopo la distesa di campi c’è la SP 91, quella della rotonda che sembra una balena interrata, e un distributore: da lontano sembra uno scenario da provincia americana, invece siamo a Bergamo, all’inizio della Bassa. Dopo la strada provinciale ci sono ancora un po’ di campi, la zona industriale e l’autostrada.
Quando ero più giovane tutto questo non c’era: c’erano solo i campi e l’autostrada. D’inverno, e ancor di più d’autunno, scendeva una nebbia lattiginosa, che copriva tutte le cose. Ogni mattina percorrevo il tragitto verso la pensilina, per attendere il bus e andare a Bergamo, a scuola.
Nelle mattine nebbiose non vedevo nulla, ma sapevo bene dove andare. Era tutto bianco, grigiastro, in fondo si sentiva il brusio dell’autostrada e qualche volta il rumore della mietitrebbia. Non era un problema, anzi. Il problema erano le mattine limpide, quelle che vedi: le case, le strade ben scontornate, gli alberi etc. E un silenzio assurdo, che lasciava spazio a tutti i pensieri più negativi, quelli tipici dell’adolescenza, nulla di che oggi. La nebbia invece mi cullava, lasciandomi addosso un po’ di umidità, una sensazione di freddo percepito. Una sorta di ritorno primordiale nella sacca materna, la sicurezza e il tepore dimenticati, che riemergono dove meno te lo aspetti.
Tante volte ho percorso a piedi, le cuffie nelle orecchie, la pista ciclabile in mezzo ai campi e fra i grandi tralicci dell’alta tensione, con i loro suoni vibranti, che paiono sotterranei. E poi il sottopasso che si allaga quando piove troppo (sotto la SP 91), la canalizzazione di una roggia che un tempo scorreva libera, la zona industriale – sì, la pista ciclabile qui passa dalla zona industriale – e il resto della pista.
Poi un giorno d’estate, sull’asfalto grigio, fra i tralicci, un cervo.
Fermo, immobile come una statua, ma di carne, calda, sudata, fumante. Un cervo con lo sguardo fisso su di me dal suo viso triangolare, in una tranquillità indifferente, nessun movimento. Nessuno che passava in bici, a piedi, oppure coi monopattini che oggi vanno tanto di moda. Solo io e lui.
Che cosa ci fa qui un cervo? Perché? mi chiedevo tra me e me, anch’io immobile ma terrorizzato. Avevo come sempre le cuffie, stavo ascoltando “A Grave Is a Grim Horse”, uno dei bellissimi dischi folk di Steve Von Till dei Neurosis. Ho tolto le cuffie, spento la musica, lentamente.
Tempo prima avevo letto uno di quei libretti che ogni tanto vengono allegati a L’Eco di Bergamo, “Animali delle nostre montagne”. C’era ovviamente il cervo (Cervus elaphus) e una bella descrizione piena di curiosità del più grosso erbivoro selvatico esistente sulle Alpi. Me le ricordavo un po’ quelle pagine e sempre tra me e me ne ripetevo alcuni passaggi. Sulle Alpi tende a non superare i 2.500 metri di altitudine, generalmente stanziava in ambienti pianeggianti o a basse latitudini, come nelle foreste planiziali che un tempo occupavano la Pianura Padana, ma poi la specie si è spinta nelle aree montuose per sfuggire alla pressione demografica e venatoria dell’uomo.
“Un tempo”. Quando? Quanto tempo fa c’erano le “foreste planiziali” nella Pianura Padana e quindi anche qui dove ci troviamo ora, lui immobile e tranquillo, io immobile e terrorizzato? Solo noi due, e la sensazione che lui sia più forte di me e mi possa uccidere, con le corna. Entrambi i sessi appaiono statuari e possenti. Ciò che in maniera più evidente li differenzia è la presenza, solo nel maschio, dei “palchi” (le tipiche corna ramificate dei Cervidi).
È un maschio allora. Enorme, e sempre immobile. Sarà alto oltre due metri corna comprese, peserà qualche centinaio di chili. La percezione di essere io il debole, e lui l’animale che mi aveva in balìa, mi irrigidiva le gambe, i muscoli delle braccia. Teneva fissi i miei occhi nei suoi, così certi, sicuri, come se già sapesse che mi avrebbe trovato lì.
Alimentazione erbivora, ricordavo, quindi non voleva mangiarmi. Eppure tutto era anomalo: era venuto da chissà dove, solitario, quando i cervi sono animali sociali e poligami (era l’ultima cosa che mi ricordavo del libretto). Perché? Che cosa c’era dietro? Rimuginavo tra me e me questi ricordi, queste domande. Che cosa starà pensando lui? Starà pensando? E se mi vedesse come un altro cervo, pronti per la lotta corna contro corna? Stavo delirando: non ero un cervo, non avevo l’albero duro delle corna, gli zoccoli. Stavo su due zampe.
Continuava a non muoversi, il cervo. Non avevo notato l’aria che gli usciva dalla froge, come per i cavalli, ma si chiameranno così anche per i cervi?. Non avevo notato il cielo bianco che sembrava candire le cose, la temperatura alta, l’afa. In lontananza il miraggio dell’asfalto cotto e liquefatto dal sole (effetto fata morgana).
E se fosse tutto un sogno? No, impossibile. Sono sicuro di essermi svegliato questa mattina. E se ora mi attaccasse? Lo stavo pensando mentre il cervo lentamente muoveva una gamba, poi l’altra e le due rimanenti. Sontuoso, girava il collo e la testa come per fare pochi passi e sferrare il colpo.
Invece si era voltato, tornando da dove era venuto, a passo spedito, ma senza trottare. Io lo osservavo, non avevo mosso di un centimetro la testa. Come se continuassi a guardare i suoi occhi, che nel frattempo se ne stavano andando insieme al resto del suo corpo energico, assoluto, capace di vita o morte.
Ero rimasto inerme, sperduto, le gambe ancora ferme sull’asfalto, tra i tralicci rumorosi e il brusio dell’autostrada in fondo. Ero rimasto inerme, dinanzi a un cervo che era andato via, nel mondo.