Ci sono libri le cui parole sfrigolano fra le mani di chi li legge. Libri che rimangono attaccati alla carne, da cui non si esce intatti. Ognuno ha i suoi: per chi scrive, “Moby Dick” di Melville (“pensai di mettermi a navigare per un po’, e di vedere così la parte acquea del mondo”), le poesie di Fernando Pessoa, le “Operette morali” di Giacomo Leopardi. Ma anche libri più recenti, come la “Trilogia della pianura” di Cormac McCarthy o “Libra” di Don Delillo, dove si sente scricchiolare il meccanismo della Storia.
Ci sono anche libri biblici che possono dare un tale effetto prorompente: uno di questi è “Qoèlet” o “Kohèlet / Ecclesiaste” nella traduzione libera e poetica di Erri De Luca, o ancora “Qohélet. Colui che prende la parola”, splendido sottotitolo di una traduzione letteraria e misteriosa di Guido Ceronetti, forse la più bella. “La provvidenza ha voluto che questo libro rientrasse nel canone sacro. Lo si legge in forza di questa assunzione, ma sempre un lettore si chiede cosa ci stia a fare K. nell’Antico Testamento. E si risponde, se crede: ‘amen’, verità” scrive De Luca nell’introduzione di un libro che nel corpus biblico è definito – come altri: “Rut”, “Cantico dei cantici”, “Lamentazioni”, “Ester” – Sapienziale, “sì, qualora sia data alla Sapienza licenza piena di farneticare, di essere, da quanto si crede nel quotidie (quotidiano, ndr), arcanamente altro” scrive senza troppo girarci intorno Ceronetti.
Ma cosa racconta “Qoelet”? Nulla, non racconta, dice. Una voce solitaria nel deserto, “sotto il sole”, pronuncia dodici meditazioni tragiche e dolenti su temi quali il bene e il male, la vanità della vita (“Vanità delle vanità, dice Qoèlet, / vanità delle vanità, tutto è vanità”) e il senso delle proprie azioni, suggerendo un anelito verticale come soluzione (“Abbi fiducia nel Padre e segui le sue indicazioni”), anelito che però non sembra rispondere del tutto alla sofferenza rabbiosa dell’uomo Qoèlet (“Gravarsi di conoscere / Fa traboccare il dolore” traduce Ceronetti gli ultimi due versi della prima meditazione). Quantomeno per chi ha fede, sarà il resto del Libro sacro a rispondere del tutto alla domanda che lo falcia, tracimando dalla bocca crocchiante di sabbia di Qoèlet.
Con “Qoelet” David Maria Turoldo intraprese un dialogo in forma di poesie e meditazioni che continuò anche con il “Cantico dei Cantici” e “Il libro di Giobbe”. Venne racchiuso nella raccolta “Mie notti con Qoelet”, pubblicata nel 1992, l’anno della morte di Turoldo, di cui ricorre il trentesimo anniversario (6 febbraio 1992). Sacerdote, mistico, intellettuale, profeta (nel senso di uomo capace con le proprie parole di trafiggere il proprio tempo e il nostro), Turoldo fu un poeta, tra i più grandi del Novecento e della poesia cristiana dello scorso secolo, al pari di Rebora e Testori. Visse dal 1964 a Fontanella, frazione di Sotto il Monte, dove fondò nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio una nuova esperienza religiosa comunitaria (qui una biografia dettagliata), che comprendeva anche persone laiche. Accanto fece costruire “Casa di Emmaus”, che dal 1967 dava ospitalità a credenti e non credenti in ricerca (oggi ha sede la casa editrice Servitium).
Con le sue parole, Turoldo sapeva parlare ai credenti ma anche a chi non crede, paradossalmente forte di una fede conturbante, contrastata, che non aveva mai pace. Ma era una fiamma che accendeva i suoi versi, avvicinandoli a tutti. “Padre David – ha scritto il critico letterario Carlo Bo – ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni”. “Mie notti con Qoelet” è un libro piccolo ma profondissimo, che trovai qualche anno fa in un Libraccio di Savona, ad un prezzo irrisorio, inversamente proporzionale alla sua potenza: Turoldo consuma otto notti sulle parole di Qoèlet, ne forgia nove poesie, dialoghi con Qoèlet come tentativi di illuminare la notte del “Tutto-Nulla che contiene l’universo” (come scrive nella prima sezione del libro, dal titolo programmatico “Mendicanti di Dio”). E alla fine chiude con una “Profezia antica”, annotando che fu quella “il primo spiraglio di luce a forare la tenebra della mia prima lettura dell’opera di Qohelet”.
È incontro magmatico quello con “Mie notti con Qoelet”, spiazza il lettore, diviene agguato nel silenzio necessario a chi legge la poesia. Testo dopo testo, assistiamo al dialogo fra Turoldo e Qoelet, un dialogo solo apparentemente a senso unico, ma che cita frammenti del libro biblico e lascia che le risposte eclissino nel silenzio bianco della pagina. Come direbbe l’amico Michele Gazich, quel “Fuoco nero su fuoco bianco” con cui gli ebrei indicano il Pentateuco.
“Pure a te è negato conoscere / il senso vero del Nulla che insegui: / un Nulla che non sai se nulla sia / o sogno, o visione, o vento, o ancora / soffio caldo di vita. / Non c’è morte né vita per sé disgiunte”. Ecco allora che a trent’anni dalla pubblicazione, “Mie notti con Qoelet” rimane radicalmente un libro dal carattere esistenziale, un’ispezione profonda sul significato del nostro vivere. Se la parte su “Qoelet” riguarda la disperazione e la ricerca, quella sul “Cantico dei Cantici” risponde al Nulla con l’amore: “Dall’amaro stillicidio mentale ci salva / la Sublime Allegoria”, dove “la Sublime Allegoria” è l’inno d’amore sensuale e totalizzante dei due amanti del Cantico. Mentre l’ultima sezione, dedicata al “Libro di Giobbe”, è l’atto di fede supremo verso un Dio che salva dal male: “Allora rinverdirà ogni carne umiliata / e gli andremo incontro con rami nuovi: / una selva sola, la terra, di mani”.
Il libro si chiude con una bella ed esauriente postfazione del cardinale Gianfranco Ravasi, che spiega la costruzione poetica di Turoldo come accostamento dialogante di “Qoelet”, “Cantico dei Cantici” e “Libro di Giobbe. Fu bello dopo questa lettura andare a Fontanella, dove nel piccolo cimitero del luogo David Maria Turoldo è sepolto semplicemente, con una croce di legno e un minimo di indicazioni anagrafiche. Ed è bello tornarci ogni tanto, anche per chi come me non crede, in una specie di pellegrinaggio. Perché Fontanella è un luogo speciale, più vicino al cielo non solo per la sua posizione in collina: da lì le parole di David Maria, come stelle brucianti, illuminano il buio. E lui, “Lazzaro d’amore” (come si era definito in una delle sue raccolte), sembra essere ancora tra noi.