C’è una poesia di Mariangela Gualtieri che porta il nome di una data, “Nove marzo duemilaventi” (la potete leggere qui), un fiume di versi scritto al chiuso della propria casa, forzatamente lontana dagli altri, durante i primi giorni di lockdown: “Adesso lo sappiamo quanto è triste / stare lontani un metro”, recita il finale, un pensiero sul peso dell’assenza della vicinanza. Non sta proprio andando tutto bene in questa pandemia e sull’uscirne migliori ci sarebbe ancora molto da lavorare, ma la consapevolezza dell’importanza della relazione con l’altro, vissuta a distanze accorciate, con la presenza fisica e con la possibilità di parlarsi senza schermi in mezzo, si è rivelata in tutto il suo essere necessaria, a fronte della sofferenza psichica ed emotiva e della solitudine emerse durante il lockdown.
“C’è bisogno di vivere una intensità insieme, e credo che questo possa accadere o nel dolore o nell’arte o nel rito. Ma arte e rito sono per me molto vicini” spiega Mariangela Gualtieri, una delle voci più interessanti della poesia italiana contemporanea, che tornerà a Bergamo ospite della rassegna Molte Fedi Sotto lo Stesso Cielo il 9 novembre nella Basilica di Santa Maria Maggiore (ore 20.45, ingresso gratuito su prenotazione).
“Fraternità Solare” sarà il rito sonoro che la poetessa porterà nel cuore di Città Alta: un insieme di storie e racconti, situazioni di vita e contesti per portare alla luce l’intreccio tra noi e il mondo. Uno spettacolo guidato dal regista Luca Ronconi, con cui Mariangela Gualtieri ha fondato il Teatro Valdoca nel 1983, una tra le più affermate compagnie italiane di ricerca e sperimentazione.
“Abbiamo bisogno di simboli attivi e il rito è la manovra geometrica che carica il simbolo – spiega Mariangela – Nel mio caso i simboli sono le parole e per liberare l’efficacia massima del verso mi pare, per esperienza, che occorrano una serie di requisiti. Li elenco in modo sommario: una voce che dia forma sonora al verso, una comunità provvisoria in ascolto, un luogo raccolto, il silenzio di fondo, un attento raccoglimento, una certa durata, buio e luce in giusta misura, un poco di musica. La messa a punto millimetrica di questi e altri elementi costituisce quello che chiamo rito sonoro”.
Dalla furia dell’esistere, alla quiete nella poesia
Il raccoglimento, la cura del dettaglio, l’equilibrio delle ombre e dei suoni. Tutto nelle parole della poetessa è pacato, lieve e calmo, eppure non è sempre stato così l’esistere per lei: “Sono stata molto inquieta fino a che non ho cominciato a scrivere versi. L’inquietudine mi lanciava nel mondo, quasi mi costringeva ad un agire furioso e a volte rischioso”. Poi quel sentire mai disteso ha trovato pace tra le pagine e quasi trent’anni fa è arrivata “Antenata”, la prima raccolta di poesie di Mariangela Gualtieri, uscita per Crocetti Editore nel 1992, che si apriva così all’insegna della sperimentazione linguistica: “parlamiche / ioascoltoparlamiche / mimettosedutaeascolto”.
“È sempre stata con me non la poesia ma la mancanza di poesia, quel silenzio che non smetteva e mi costringeva a buttarmi in esperienze anche estreme – ricorda – Ho viaggiato un bel pezzo di mondo da sola, prima dell’avvento dei cellulari e quando il turismo di massa non esisteva. Qualcosa non smetteva di mancare nella mia vita, e solo quando, molto tardi, ho cominciato a scrivere versi, solo allora l’inquietudine si è placata e mi è sembrato finalmente di atterrare del tutto su questo pianeta”.
Un Pianeta che in questi ultimi due anni ha reso evidente a chiunque l’interconnessione tra la natura e gli esseri umani, “mi pare si sia avvertito con più forza che siamo un’unica specie, che siamo insieme su questa terra, che gli altri sono fondamentali, con la crescente consapevolezza che siamo in grave pericolo. La cultura, attraverso la scienza, ci sta dicendo che siamo poco più di niente e che innumerevoli specie sono più sapienti di noi. Ma c’è anche una superbia della cultura che ci fa sentire migliori degli altri viventi, senza considerare che siamo appena arrivati su questo pianeta, mentre ci sono specie che lo abitano da milioni di anni”.
L’intensità della poesia contro una vita triste
La consapevolezza dello spazio che si occupa nel mondo e dell’esser parte di qualcosa di immenso e indicibile ricorre nei versi di Mariangela Gualtieri, dove la possibilità della parola di raccontare, si scontra con il silenzio e i limiti del linguaggio. “Io non sono mai tutta, mai tutta / io appartengo all’essere e non lo so dire”, scrive la poetessa, per la quale “silenzio e poesia sono le due facce della stessa medaglia, non so pensarli separati e posso dire che entrambi non mi bastano mai. Il verso è l’ambito in cui la lingua vive la sua massima intensità, una intensità che non potremmo reggere di continuo – forse bruceremmo per autocombustione – ma senza abitare la quale si può morire d’arsura, di sterilità, o se non morire, ci si può inaridire e dunque apparecchiarsi una vita triste, perché senza frutti non c’è gioia”.
Una vita feconda è una vita nutrita di esperienze, di stimoli e anche di ispirazione. Per Mariangela Gualtieri il nutrimento arriva anche dalle parole di Amelia Rosselli, Clemente Rebora o dai versi di Dante. “Mi sento fatta, cresciuta, abbellita da quello che ho amato e in primo luogo dai poeti. La Divina Commedia è per me un manuale per la felicità– racconta – Mi sembra che ogni amore abbia deposto in me i suoi preziosi semi di crescita. Tutto quello che sono e che so lo debbo all’insegnamento di qualcuno, di qualcuna e a grandi eredità ricevute. So che ad un certo punto bisogna lasciare i maestri e diventarlo noi stessi, con umiltà e grande coraggio. Io ci provo, ma sull’efficacia del mio fare non spetta a me giudicare”.
L’incontro con la parola poetica è aprirsi al mistero
Davanti a una poesia che per molti è distante, difficile, poco accessibile o che spesso viene ridotta ad aforisma che sta bene sulla foto di un tramonto per un post su Instagram, la sfida è accorciare le distanze, tendere una mano e aprire uno spiraglio da cui anche chi non è famigliare ai versi possa entrare sentendosi accolto. Mariangela Gualtieri in risposta guarda alla Divina Commedia. “Mi sembra sempre più attuale e urgente l’insegnamento di Dante: dire le cose più alte con la lingua più bassa, dire il Paradiso con la lingua delle ‘muliercule’, delle donnicciole. Questa è stata anche su di me la lezione di quaranta anni di teatro. In teatro la parola deve arrivare immediatamente e dunque ho via via abbassato la mia lingua, anche su richiesta di Cesare Ronconi, regista col quale ho sempre lavorato”.
Per la maggior parte delle persone che non la frequentano, quello con la poesia è un incontro che risale agli anni della scuola, dove spesso il modo in cui viene proposta a studenti e studentesse attraverso analisi non genera alcuna scintilla. Eppure “la Poesia è una forma di energia e chi ne sta lontano perde una preziosa alleata. La scuola fa quello che può, ma in genere consegna la poesia solo nella sua forma razionale, saltando quasi del tutto la cura della sua sonorità. E così i ragazzi non si appassionano perché dall’incontro decisivo con questa strana parola, restano esclusi elementi fondamentali, come la musica della poesia, melodia e ritmica, l’intuito, il mistero e il corpo, col suo godimento e gioia di corpo attraversato da onde sonore”.