Non serve un’altra settimana di chiusure forzate per avere un buon pretesto per spegnere la TV, schivare il bombardamento incessante di informazioni e ritagliarsi del tempo per leggere. Certo, è un buon motivo in più, se in qualche modo avete più ore del solito da dedicare ai libri.
Ecco dunque una manciata di titoli dell’ultimo biennio, di esordienti e autori affermati: procuratevi questi volumi, anche in eBook se non volete uscire di casa (ma un salto in libreria e due parole con un libraio danno molta più soddisfazione).
“Hamburg. La sabbia del tempo scomparso” di Marco Lupo (Il Saggiatore, 2018)
Vincitore del Premio Campiello Opera Prima 2019, “Hamburg” è uno di quei libri che restituiscono un’immagine nitida dell’idea di letteratura dell’autore e della lingua per esprimerla.
Marco Lupo nella vita è un libraio, e proprio intorno a dei libri, con un espediente metanarrativo, costruisce il suo: un gruppo di avidi lettori ritrova alcuni vecchi romanzi di un autore sconosciuto e dà voce a quelle parole scritte e dimenticate che raccontano i giorni della Feuersturm, la “tempesta di fuoco”, il bombardamento della RAF che si abbatte sulla città di Amburgo tra il 26 luglio e il 3 agosto 1943. Quella scheggia di Storia ritorna nel presente attraverso i romanzi ritrovati, come una specie di fantasma rievocato “in un rito collettivo eseguito da voci segrete”.
Così, Lupo spinge gradualmente il lettore all’interno del suo romanzo storico-documentale, che si rifà alla “letteratura delle macerie” di Arno Schimdt, Wolfgang Borchert, Erich Kästner, dimostrando di aver ben interpretato (anche nel metodo, con l’inserimento di materiali fotografici) la lezione di un altro grande autore del Novecento tedesco, W.G. Sebald.
“Hamburg” è un romanzo fatto di romanzi, di corpi che si rintanano in sotterranei umidi, polverosi, e di uomini che a guerra conclusa si muovono come spettri scarni tra le macerie, per pulire e ricostruire. Riflette sul tempo perduto, irricordabile, su una memoria possibile solo se immaginata, e poi messa nero su bianco. Con una scrittura chiara, potente, di parole che sono pietre pesanti e pazientemente levigate.
“Io sono la bestia” di Andrea Donaera (NN Editore, 2019)
Un altro esordio, un altro giovane autore attento a fare della lingua il tratto più riconoscibile. E non può essere altrimenti quando, come nel caso di Andrea Donaera, un poeta si presta al romanzo.
“Io sono la bestia”, pubblicato lo scorso ottobre, è la storia di una tragedia familiare – il suicidio del figlio del capo della Sacra Corona Unita – e di come questa cambi drasticamente le persone coinvolte e i loro rapporti.
Mimì, il boss, è abituato a esercitare il controllo su ogni cosa. Per la prima volta però è travolto dagli eventi, e si ritrova incapace di gestire la situazione se non esplodendo nella ferocia.
Il contesto in cui si muovono i personaggi è solo accennato: l’appartenenza alla mafia è lì solo per rendere la voragine di Mimì ancora più scura e profonda. La provincia pugliese si intravede in rapide immagini di distese aride di ulivi come cippi funebri. Gli anni Novanta, periodo in cui si svolgono i fatti, riecheggiano solo in qualche verso dei Nirvana. Ma è tutto ben architettato: il cuore nero della narrazione (a più voci, i personaggi parlano in prima persona) è l’interiorità, la memoria, l’amore e il disprezzo, la purezza e la bestialità umana, la difficoltà di risolvere vite schiacciate dalla violenza.
Uno schiaffo che si riceve volentieri, addolcito da una lingua originale che mischia prosa, poesia e incursioni dialettali.
“Le vite potenziali” di Francesco Targhetta (Mondadori, 2018)
A proposito di romanzi scritti da poeti, anche Francesco Targhetta, trevisano classe 1980, pubblica un primo libro di poesie nel 2009, un romanzo in versi nel 2012 (“Poiché veniamo bene nelle fotografie”, ISBN 2012) per poi approdare alla prosa dura e pura con “Le vite potenziali” che mette al centro una parte del mondo del lavoro ancora poco esplorata dalla letteratura. Ci riferiamo all’habitat delle aziende di consulenza informatica e di start-up innovative in cui si comunica in conference call, dove ci sono liste di nice-to-have, i rapporti sono win-win e la retention conta più di qualsiasi cosa. Quella realtà da cui è partito il terribile gergo di parole inglesi spesso italianizzate (debaggare, matchare, skillato... e fermiamoci qui).
Un mondo che Targhetta, inventandosi la società informatica “Albecom”, cala nella provincia veneta, a Marghera e dintorni, nel polo della vecchia industria petrolchimica e dei cantieri navali, ormai riconvertito a culla di nanotecnologie e aziende informatiche. Qui si intrecciano le vicende di Alberto, Luciano, GDL, Matilde e Paola. Vite costruite sull’imprevedibilità, sulle alternative, sulle possibilità, e che per natura non riescono ad ancorarsi a qualcosa di determinato, di stabile. Vite sempre pronte a svoltare, e che spesso finiscono per restare potenziali. Vite come le nostre.
“Realismo capitalista” di Mark Fisher (NERO, 2018)
Se parliamo di riorganizzazione del lavoro e del presente, c’è un titolo che negli ultimi anni ha circolato diventando una specie di breviario da recitare per interpretare i tempi che viviamo. Mark Fisher, scrittore, critico musicale, blogger, filosofo, attivista, era tutto questo prima di togliersi la vita il 13 gennaio 2017.
Non serve spaventarsi per il titolo, non si tratta di un pesantissimo tomo di filosofia politica: si parla di filosofia, di politica ma in un libretto agilissimo e leggibile anche solo in mezza giornata. “Attraverso esempi presi dalla vita quotidiana e dalla cultura pop, ma senza per questo sacrificare l’intransigenza teoretica, ci restituisce un ritratto spietato della nostra miseria ideologica”, così il filosofo Slavoj Zizek.
Fisher parte dall’assunto che oggi “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” e che in ogni anfratto della nostra esistenza si è insinuato il mito thatcheriano del there is no alternative, non ci sono alternative: immaginare un futuro diverso è diventato impossibile. Da qui l’autore srotola un’analisi a dir poco brillante, per profondità e capacità divulgativa. Da leggerne un passo tutte le sere, prima di andare a dormire.
“La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana” di Enrico Deaglio (Feltrinelli, 2019)
Difficile (e sconsigliabile, per amor di complessità) riassumere in poche parole cosa abbia significato per il nostro paese la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Eppure – e lo si può dire senza rischio di iperbole, anche senza le più recenti scoperte – rappresenta per la nostra storia l’evento più significativo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, se non dall’unità d’Italia, poiché irrisolto e per certi versi ancora “vivo”. Certamente è stato il più determinante: il Paese che siamo è il risultato di quel fatto e delle sue conseguenze.
Ne “La bomba” Enrico Deaglio traccia le coordinate utili a conoscere meglio quell’accadimento e quegli anni, i Settanta – così importanti ma ancora così confusi nella testa dell’opinione pubblica – e i decenni a seguire. A partire dal caso Pinelli e dalla controinchiesta (Strage di Stato) che ha gettato luce sull’ombra nera del potere e scoperchiato il vaso di Pandora della Strategia della tensione.
Deaglio unisce, con grande capacità narrativa, il rigore dello storico al calore del testimone oculare (fu protagonista di quella stagione). Il risultato è una guida completa fatta di nomi, luoghi, eventi, protagonisti e fonti di vario genere, per continuare spingersi verso la verità.