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«L’ordine apparente delle cose» di Lara Fremder: la parola dei figli che vince il silenzio dei padri

Intervista. Pubblicato quest’anno da Gabriele Capelli Editore (e presentato, la scorsa domenica, allo Spazio Caverna), è un libro sulla ricerca della «memoria perduta». Sullo sfondo, Gerusalemme e il conflitto israelo-palestinese.

Lettura 4 min.

«È tempo che si sappia […]. È tempo che sia tempo», recita una meravigliosa poesia di Paul Celan. Leggendo «L’ordine apparente delle cose» (Gabriele Capelli Editore, 2024), romanzo d’esordio di Lara Fremder (sceneggiatrice e docente presso la Scuola civica di cinema «Luchino Visconti» di Milano e presso il Conservatorio internazionale di Scienze audiovisive di Locarno), vengono in mente proprio le parole del grande poeta rumeno: Rachele Zwillig, ebrea, guida turistica, nonché protagonista dell’opera, si trova, suo malgrado, a fare i conti con il passato della propria famiglia.

A questo passato ingombrante (e al dolore muto che la pervade) desidera dare un nome, desidera dare un senso. Per mezzo di un’incessante ricerca a ritroso e tramite il dissotterramento di quel che le è sempre stato taciuto, Rachele riuscirà a sancire un compromesso con sé stessa e con la sua storia, guadagnandosi, infine, un po’ di serenità e di pace. «L’ordine apparente delle cose», attraverso una scrittura agile e potente, è un libro sullo svelamento e sulla memoria, ma anche sul non detto che, come una malattia genetica, viene trasmesso dai genitori ai figli, sino a quando, a un certo punto dell’esistenza e quasi per caso, emerge in tutta la sua crudele brutalità. Del resto, la personale recherche di Rachele Zwillig non è voluta: accade. A squassare l’illusorio equilibrio di questi silenzi di sangue, alcuni oggetti che, come in un quadro di Giorgio Morandi, appaiono quasi pulsanti e ammiccanti: “madeleine proustiane” che interrogano il cuore della protagonista e che l’accompagnano, fatalmente, alla verità. A far da cornice al tutto, la Gerusalemme dei nostri giorni (con il fascino delle sue tante contraddizioni) o, per meglio dire, la Gerusalemme di prima del sette ottobre: data per la quale – spiega Fremder, che, scorsa domenica, ha presentato il volume allo Spazio Caverna – non se la sentirebbe, ora, di scrivere un testo come questo.

FR: Lara Fremder, cosa intende per «ordine apparente delle cose»?

LF: Tutti noi aneliamo all’ordine; nonostante persino la termodinamica ci dica il contrario, pensiamo che l’ordine sia lo stato naturale delle cose. Non è così, ogni cosa è destinata al caos. Rachele, la protagonista del romanzo, organizza attorno a sé un ordine apparente e lo fa per difendersi dal proprio passato. Alla lunga, questo, si rivelerà uno sforzo vano. Il titolo, però, si riferisce anche a quanto è sempre accaduto in Israele, in cui, agli illusori momenti di pace, si sono alternati quelli sanguinosi della guerra, poiché non si è affrontato con rispetto la realtà: riconoscere che in quella terra vivevano i Palestinesi.

FR: «Qui è bene perdersi. Perdersi significa non cercare risposte, quindi non fatemi domande se non strettamente necessarie. Non interrompete il vostro smarrimento di fronte ad apparenti certezze. Mantenete il disorientamento, mantenetelo il più possibile perché è questo ciò che ha valore». Eppure, da queste parole dal gusto quasi nietzschiano pronunciate dalla protagonista, sembra che il disordine sia una sorta di ordo inversus necessario …

LF: In un certo modo, sì: senso e bellezza sono elementi che vanno cercati e svelati e per farlo, a volte, bisogna procedere in maniera non ordinaria, mettendo in discussione sé stessi e le proprie credenze. Ma questa è anche un’esortazione a riconquistare la propria dimensione e a riconquistarsi, a tenere allenato il proprio spirito critico e a non perdersi nel conformismo della massa.

FR: «A volte mi invento una data, un imperatore mai nato, luoghi e genealogie inesistenti, nomi e date che sfuggono al controllo della storia e della memoria, in fondo piccoli e innocenti attentati alla realtà. […] Lo faccio anche con me stessa, me la racconto la vita, nel bene e nel male, […] e spesso ci credo». Rachele ama distorcere le realtà: le bugie narcotizzano il vissuto o permettono, al netto del vero, di donargli senso?

LF: Penso un po’ tutte e due le cose. Rachele è un personaggio a tuttotondo: è ironica, critica e ama molto giocare con la realtà. È sicuramente un modo per rendere più divertente una quotidianità lavorativa piuttosto monotona, ma anche per ritagliarsi uno spazio «altro» all’interno di una realtà complicata e di un vissuto doloroso.

FR: A pagina 79, Rachele esclama: «Ogni discorso di strumentalizzazione della Shoah con me non funziona, ok? Abbiamo vissuto quell’orrore, contro di me non potete nulla». La Shoah è strumentalizzata?

LF: È innegabile che per secoli gli ebrei abbiano subito pogrom e antisemitismo, ma è drammatico che un popolo di profughi, nel darsi una terra, generi altri profughi. Riconoscere il trauma dell’altro è la base per una possibile convivenza civile: esiste il trauma della Shoah, ma esiste anche il trauma della Nakba. Per superare il dolore storico, spezzare la giostra della morte e non alimentare ulteriore ferocia, è necessario mantenere la propria umanità anche quando te la stanno togliendo.

FR: «Per la prima generazione, quella dei sopravvissuti, è impossibile esprimere il sentimento. Per la seconda generazione è più facile, ma difficilmente i figli dei sopravvissuti vanno in visita ai campi o alla ricerca delle storie di famiglia. E poi c’è la terza generazione, quella dei nipoti. “È come se fossero stati mandati dalle generazioni precedenti a esprimere le emozioni anche per loro […]”». È davvero così?

LF: Mio padre, ebreo polacco, è nato e cresciuto a Kałuszyn, vicino a Varsavia. Quando, nel ’39, il villaggio fu occupato dai nazisti, lui era in Italia e si salvò. In quanto ebreo, non si salvò, però, dall’internamento nei campi di prigionia fascisti in Italia, a Nereto e a Ferramonti. Ho vissuto i suoi silenzi, carichi di dolore; del resto, il trauma di sopravvivere a un’esperienza estrema come quella della Shoah condiziona le relazioni con gli altri. Il trauma dilaga oltre la generazione delle vittime e io questa cosa l’ho sperimentata. Mi sono dovuta confrontare anche con quel senso di colpa che è tipico dei sopravvissuti; il senso di colpa dato dal fatto di non essere riusciti a impedire che altri morissero. Fin quando non si traghetta il proprio genitore fuori dalla realtà dei campi di sterminio, i figli non si sentono autorizzati a vivere la propria vita. Eppure, la rielaborazione del dolore può avvenire solo relazionandosi a esso, senza fuggire.

FR: Lei ha detto che, dopo quanto è successo il 7 ottobre, un romanzo come questo non lo scriverebbe più. Perché?

LF: Perché la Gerusalemme del mio libro non esiste più, è come sospesa. Ma se Rachele fosse nella realtà di quel luogo, ora, desidererei manifestasse per il cessate il fuoco e per la liberazione degli ostaggi, ma anche contro il massacro del popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania.

FR: Gerusalemme, per lei, è un grembo materno o un labirinto kafkiano?

LF: È un labirinto kafkiano, con qualche spiraglio di uscita. Sia per me che per Rachele.

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