C’è un verso di David Maria Turoldo che recita così: «Con angoscia ti fuggo, / o Luce, ma sulla stessa / via sempre t’incontro». Per il teologo, il rapporto con il divino è qualcosa di doloroso ma anche di inevitabile. Allo stesso modo, in «Chiarissima luce», raccolta di poesie nonché quarta pubblicazione di Alessandro Ardigò, edita quest’anno da Compagnia editoriale Aliberti, la luce mostra tutta la sua imprescindibilità e, soprattutto, tutta la sua impalpabile ambiguità: è infatti perennemente impegnata in un incessante (quanto necessario) dialogo con l’oscurità e con la morte. Eppure, anche quando frutto di ineluttabile sofferenza, essa è elemento visibile, se così si può dire, di grazia incommensurabile. «Il mio libro si nutre di contrasti – spiega l’autore (dottorando in Studi filologici e linguistici presso l’Università di Bergamo) che, alle ore 18.30 di giovedì 28 novembre, alla libreria «Ubik» di Borgo Santa Caterina, presenterà la propria silloge – si vivifica e si tempra per mezzo della contraddizione e ciò appare in ogni suo singolo brano. I disegni in bianco e nero, da me ideati e posti esattamente al centro dell’opera, lo dimostrano ancor più concretamente: per far emergere la luce non si può far altro che scurire le parti in ombra».
Fra prosa e poesia, fra tenebra e luce: una poetica dei contrasti
Ma, all’interno di «Chiarissima luce», il gioco fra poli apparentemente aporetici si manifesta anche tramite una scelta stilistica ben precisa. «La narrazione (formata da componimenti brevissimi e, dunque, volutamente frammentaria) è sia in prosa che in poesia – afferma il poeta, quarantun anni, un passato come paziente oncologico – E proprio sulla relazione che intercorre fra prosa e poesia si basa la riflessione letteraria che ha dato origine all’intero volume. Del resto, la modernità ha distrutto i fondamenti tradizionali della “poiesis” e la ricerca di una forma diversa, nella nostra contemporaneità, non può dunque essere elusa. Nella raccolta, i due linguaggi risultano fra loro organici, in costante dialettica. La poesia non è qualcosa di contrapposto alla prosa, bensì sua naturale foce o, per meglio dire, sua “verticalizzazione”: una retta fra due punti che prendono il nome di tenebra e di luce». Ma che tipo di luminosità è quella che, attraverso le parole delicate e premurose di Ardigò, dà forma ai frammenti del testo? Un raggio che rischiara (e che quindi svela) o un raggio che abbaglia (e che quindi acceca)? È la luce naturale del sole o quella artificiale di una sala operatoria? «È una luce naturale, ma, simultaneamente, è una luce mistica, tesa verso il senso ultimo delle cose – dice lo scrittore, che, alle ore 17.30 di sabato 7 dicembre, incontrerà i lettori anche alla libreria «Come un fior di loto» di Caravaggio – poiché è in realtà una risposta spontanea a un buio profondo, quello della fine. È la luce della grazia, ovvero la capacità di percepire l’intima bellezza dell’esistere». Divise da un intermezzo, due sono le parti che compongono «Chiarissima luce»: autonome, raccontano entrambe una storia che parla del medesimo tema, ovvero quello della perdita.
Tanti, fra nomi, verbi e aggettivi, i termini “eterei”, che rimandano all’area semantica della leggiadria e della limpidezza, strutturando l’intero libro come un’opera quasi “antigravitazionale”, all’insegna della sublimazione e della purezza: «splendore», «sorgente», «eterno», «mattino», «cielo», «anima», «bianchissimo», «aria», «balzo», «petali», «bellezza», «gelata», «ghiaccio», «occhi», «nevaio», «nuda», «pulizia», «vetro», «acqua», «specchi», «titilla», «riflette», «vento», «fonte», «sogno», «gioia», «finestra», «volano», «cristallini»; senza dimenticare, ovviamente: «chiaro», «luce», «lucente» «raggi», «sole», «stelle», «scintillano». «Ai testi, ho lavorato per più di due anni – afferma Ardigò – rielaborando immagini e parole che mi tenevo dentro da tempo. Nonostante ciò, il libro è estremamente istintivo e, per certi versi, carnale. L’anelito verso la luce, difatti, non è una semplice costruzione retorica ma un bisogno estetico, che interpella i sensi. Questo perché, come tutti gli artisti, non lavoro sull’idea in sé, ma, per l’appunto, sull’estetica dell’idea, che è l’unico modo per colpire, visceralmente, l’animo di chi legge. Quando scrivo non faccio filosofia: essa, se c’è, è ancella della mia arte. Fisico, inoltre, è anche il bisogno di avvertire la presenza della grazia, viatico contro la finitezza umana e l’angoscia del nulla».
Essenziale, quasi chirurgica: una scrittura dell’incorporeità
Tuttavia, nonostante una certa sensualità (che indubbiamente attraversa i 54 brani dell’opera), la scrittura di Ardigò rimane essenziale, garbata, incorporea («Il guardrail, un papavero che sbuca / sulla curva in salita. / Di là, è solo cielo»), a tratti chirurgica («C’è una goccia d’acqua / di luce varia. / Scivola sulla roccia»), in grado di parlare dell’inenarrabile («I giorni della chemio / sono irrequieto / come la vacca / sul camion al macello. / Anche per lei è bianca la cerata / di chi l’accoglie»; «Tra i fiori rari il più caro è la morte / per una vita si prepara in bocca / ed una volta sola / sboccia»), ma anche di nostalgia («Eri di nuovo con me / col tuo sorriso di vent’anni / e i capelli cortissimi. / Eri una fine betulla / che si chinava a toccare il fiume / mossa dal vento di marzo»), di illusione («Io e te / l’ultimo giorno / ci racconteremo le volte / in cui ci siamo pensati / ce le ricorderemo tutte»), di caducità («Albicocco di marzo in fiore / domani saranno caduti / i tuoi petali nuovi. / Così / è l’esile bellezza / un fiore / disperso nella terra») e pure di timida speranza: «Così la gioia esiste inaspettata / dentro una luce d’ospedale / da una finestra la mattina».
E poi c’è l’ironia, l’umorismo, il riso, quello che germoglia fra le spire dell’estremo pericolo, che scalza la gravità del dramma, facendosi epifania: «Mi chiede l’oncologa come va / mi fa male le rispondo il dito / mi viene da ridere e ride lei […].».
Grazia, ovvero amore
I componimenti di «Chiarissima luce» brillano e, pagina dopo pagina, mutano in attesa, supplica, preghiera («Cantava la lingua dei padri / salmodiava i versetti antichi […].»), ma rivelano anche una grande verità: «Non ha senso nulla, se non la rinuncia, anelare alla luce. / Se non farsi ultimi fra gli ultimi, o almeno… provare.». «Se si è tronfi e troppo legati ai beni materiali, è difficile percepire l’intima bellezza dell’esistere – spiega Ardigò – La rinuncia e il distacco sono fondamentali, ma, spesso, lo è anche la vulnerabilità: in essa, la grazia aumenta e si fortifica ancor di più». Una grazia che è, prima di tutto, gratitudine e il cui sigillo, come suggerisce il penultimo frammento della raccolta a pagina 82, non può che essere l’amore: «Prima / non ero fragile / e non potevo amare. / Ora / che sono fragile / non posso che amare».