«La Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa». Viene in mente questa citazione di Karl Marx a leggere il libro d’esordio di Alberto Ravasio, «La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera» (Quodlibet, 2022), quasi un postmoderno Bildungsroman dal retrogusto freudiano, il cui motore narrativo è la metamorfosi fisica del protagonista.
Ma se il Gregor Samsa del celeberrimo racconto di Kafka si ritrovava mutato in un enorme insetto, il Guglielmo Sputacchiera di Ravasio – un po’ l’Arturo Bandini di John Fante, un po’ l’Encolpio del «Satyricon» – si sveglia trasformato in ciò che più gli manca: una donna. Punizione divina o semplice escamotage narrativo? Non è dato saperlo. Ma è sufficiente a innescare la personale e rocambolesca recherche (non del tempo, bensì del fallo perduto) del protagonista – che, sulla propria strada, incontrerà l’odiato parentado, gli amici d’infanzia e tutta una serie di personaggi fatalmente grotteschi e surreali.
Dimentichi il lettore, quindi, le spigolose e drammatiche atmosfere kafkiane: come accennato, la tragedia lascia spazio all’umorismo (e al sarcasmo) più truce e il contesto entro il quale Sputacchiera si affanna non è quello mitteleuropeo di fine Ottocento ma quello contemporaneo (e comico) della provincia lombarda, pregna di bigottismo e volgare mediocrità.
Un’opera singolare
Dopotutto, però, è forse inutile insistere con i paragoni, dato che è lo stesso autore a rivendicare la piena autonomia della propria opera e a difenderne la singolarità. «Per me, scrivere è smettere di leggere» afferma Alberto Ravasio, 31 anni, il cui romanzo è stato finalista alla trentaquattresima edizione del «Premio Calvino».
«Nel momento in cui scrivo, cerco di sbarazzarmi delle influenze culturali e dei modelli passati. Non è detto che ci riesca, ma è fondamentale allontanarmi dall’intertestualità e dall’ossessione bibliografica. Il rimando a Kafka è ovviamente presente nel libro, ma, quando lavoro, mi piace attingere dal vero, da ciò che ho vissuto. Credo che un grande problema dei nostri giorni sia il “narratore erudito”, che eccede in fruizione culturale. È come se non si riuscisse a scrivere della vita se non mediandola. Ma questo, a mio avviso, inficia il processo creativo. È stordente, distanzia dalla specificità dell’esperienza che poi deve essere messa su pagina. È tipico della mia generazione, che è “enciclopedica”, perché viene dal multimediale. Il multimediale, però, può confondere. Sputacchiera, del resto, vive in un posto in cui c’è ancora il campanile, ma è proiettato verso il porno globale, una metafora per indicare l’immaginario tecnologico in grado di colonizzare le menti».
Già, perché, fin da principio, Sputacchiera rivela tutto il proprio analfabetismo emotivo, alternando l’attività onanistica all’inedia più accidiosa. «Sputacchiera è l’emblema di una generazione “pigiamata” e depressa – spiega Ravasio – a trent’anni, non ha un lavoro né una fidanzata e vive ancora con i genitori. Fondamentalmente, è un inetto sociale e sessuale, che subisce il peso di vivere in un paesello, in cui nessuno ha studiato quanto lui, ma dove tutti sono risolti economicamente. Incapace di trovare un equilibrio, passa le sue giornate consumando porno. Nella prima parte del testo, Sputacchiera vive l’esperienza pornografica alla stregua di un’attività conoscitiva, una sorta di cibernetico scavo interiore. Alla fine, però, ne diventa dipendente. D’altronde, la pornografia non ha nulla a che vedere con la libertà o con la protesta: è ebbrezza cognitiva, poiché non c’è contatto, non c’è incontro o scontro con l’altro, tanto che, come dice un personaggio all’interno del romanzo, il destino dell’uomo virtuale poliamoroso è morire sessualmente di overdose pornografica».
La disperazione dei figli e l’inadeguatezza dei padri
Ma la riflessione sulla digitalizzazione della vita e della sessualità (e del piacere senza godimento) è accompagnata da altri due grandi temi: la disperazione economica del nuovo proletariato colto e l’inconciliabile rapporto con la generazione dei padri. «L’inettitudine sessuale del protagonista è, prima di tutto, un’inettitudine socio-economica – dice l’autore – di matrice socio-economica è la sua castrazione e, inevitabilmente, anche l’incapacità di esercitare una certa influenza su chi e cosa lo circonda. Le nuove generazioni vivono una forma di adolescenza prolungata e questo perché il loro potere d’acquisto è naufragato. Comprare casa, quindi, non significa soltanto avere un posto dove dormire e sentirsi al sicuro, bensì un posto in cui girar nudi, in cui vivere la propria intimità; una casa di proprietà è simbolo di emancipazione economica, nonché conditio sine qua non per diventare genitori e metter su famiglia».
Per farlo, aggiunge Ravasio, serve il patrimonio. «E le nuove generazioni dispongono solo di risparmi privati a opera di quelle precedenti, che risultano inadeguate. Grazie al boom economico la generazione dei padri si è miracolosamente imborghesita, deruralizzata, ma non ha guadagnato consapevolezza, non si è responsabilizzata intellettualmente. La generazione dei padri ha tutto, ma non sa niente, mentre quella dei figli sa tutto, ma non ha nulla. Per uno Sputacchiera figlio, che ha perso la propria virilità, esiste uno Sputacchiera padre estremamente machista, incapace, però, di comunicare e di assolvere il proprio ruolo di capofamiglia».
Un romanzo sul desiderio maschile
«La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera» è quindi un romanzo su cosa significhi essere uomo, un uomo che, per definirsi tale, ha bisogno di una donna. E Sputacchiera, analfabeta del sentimento, non riuscendo ad amare (e a essere amato), trova forse come unica soluzione quella di reificarsi, di farsi oggetto per la libido di altri. «Sputacchiera desidera ardentemente dei seni e li ottiene – spiega Ravasio – ma in una maniera inaspettata. Vorrebbe quelli di un’altra donna ma, ironia della sorte, finisce per averli geneticamente tatuati addosso e, verso l’epilogo del testo, pure per essere posseduto da un uomo. La sua vicenda è anche una riflessione letteraria su come raccontare il desiderio maschile eterosessuale, un desiderio che non sia necessariamente castrato a priori».
«A causa della tecnologia e del rimescolamento dei generi, dei sessi e dei ruoli, credo infatti che questo desiderio sia in parte mutato e, comunque, risulti indiscutibilmente diverso da quello degli uomini del secolo scorso. Penso se ne debba scrivere, ma in maniera differente. È complicato, poiché oggi il maschio bianco ha tutti i doveri di quello del Novecento, ma molti meno diritti, in primis quelli sociali. Il maschio privilegiato, onnipotente, è morto nel momento in cui i salari hanno cominciato ad abbassarsi per tutti: i giovani uomini della mia generazione non partono favoriti. Dire che un venticinquenne è privilegiato in quanto maschio, non ha senso. Dirlo di un sessantenne, sì».
Fra comico e tragico
Eppure, nelle ultime pagine del romanzo, Guglielmo, come nel mezzo di un’epifania, pare, per un istante, congedarsi dal suo ruolo passivo e, in un certo senso, emanciparsi. «Sputacchiera acquisisce un ruolo pienamente attivo mentre scrive la lettera al padre – afferma Ravasio – ovvero quando, attraverso la scrittura, trasforma il proprio dolore in consapevolezza. Non è, però, una parentesi metanarrativa. È, semplicemente, un esercizio di scrittura autoanalitica che, ancora una volta, risulta sfumato e, inevitabilmente, aperto ai malintesi, anticipando il finale».
Un finale osceno, in cui il riso diventa amaro e in cui, ancora una volta, la scrittura, febbrile e chiassosa, emerge in tutta la sua irriverenza e causticità. «Poter dirsi scrittore credo implichi l’essersi conquistati una lingua propria e riconoscibile – spiega l’autore – nel mio caso alta e stramba. Grazie a essa, oscillo continuamente fra comico e tragico. Quando ho la sensazione che il tragico viri verso il patetico, cerco di rilanciare la narrazione con una battuta: non un modo per attenuare o smussare, bensì per riflettere ulteriormente (il tragico è la reazione emotiva, il comico è la rielaborazione intellettuale). Tramite questo gioco, corteggio il simbolico, dissacro ogni cosa e derido tutti (a partire da me stesso)».
Un gioco spesso complesso, secondo Ravasio: «Diventare scrittore è più difficile che diventare un buon professionista e, contemporaneamente, più prestigioso. E questo perché credo che la letteratura abbia un vantaggio assoluto: quello di resistere al tempo».