Lo confesso. Ho sempre amato le versioni di greco. Sì, proprio quelle odiate da generazioni di liceali. E non sto parlando dello studio della letteratura greca (quella è meravigliosa, a prescindere) ma proprio delle “versioni”: esercizi di traduzione dal greco (o dal latino) all’italiano che richiedono un mix di analisi logica, apprendimenti mnemonici, competenze linguistiche e passione.
Sono convinta che la traduzione di un testo antico giunto a noi dopo essere passato attraverso duemila anni di ascolti, letture e pazienti trascrizioni è da intendersi come un gesto d’amore. Cosa avranno trovato in quelle parole coloro che ci hanno preceduto? Perché si sono presi la briga di scriverle e trascriverle? E come può essere che una poesia, un’affermazione, un pensiero formulato secoli e secoli fa non solo sia comprensibile ancora oggi ma addirittura valido per la vita?
Ecco, quando mi mettevo a tradurre un testo ero animata, almeno in parte, da questa curiosità. Il primo passo consisteva nel “montare” insieme i pezzi della frase tradotti in italiano (soggetto, verbo, complemento oggetto, ecc..) ma poi che magia cercare di restituire un senso a quello che mi trovavo davanti, coglierne il messaggio, le sfumature lessicali, riportarle all’oggi. L’ho sempre trovato entusiasmante.
Uno magari si immagina discorsi pomposi, sfoggi di retorica, noiose descrizioni (ci sono anche questi, in effetti) e invece dai testi latini e greci è possibile ricavare meravigliosi concetti formulati con la dirompente freschezza di chi li descrive per la prima volta: un distillato di saggezza in cui trovare le radici della cultura occidentale, le nostre.
Ora che sono passati tanti anni mi sono scordata quasi tutto della parte più “tecnica” (chi se le ricorda le declinazioni?) eppure ci sono insegnamenti e argomenti che ogni tanto mi tornano alla mente. Mi accorgo di usarli come lenti di ingrandimento per leggere il contemporaneo, per scovare sotto alla mutevolezza della superficie quel nocciolo che rimane valido per gli uomini di oggi come per quelli di duemila anni fa.
Vi propongo tre concetti che possono essere utili in questi giorni. Non ho alcuna pretesa di esaustività e non vorrei mettermi a scrivere trattati (anche perché non ho le competenze), vorrei solo provare a tirare fuori dalla memoria qualche suggestione utile a tutti.
L’hýbris
Il tema dell’hýbris è ricorrente nella letteratura greca: nell’epica, nei miti e nelle tragedie. Il termine (le cui prime lettere si pronunciano come la u con dieresi bergamasca) si traduce con tracotanza, superbia, prevaricazione. Indica, in parole povere, l’atteggiamento di quegli uomini che, troppo ambiziosi e sicuri dei propri mezzi, osano sfidare gli dei. Naturalmente, secondo gli antichi greci, la logica conseguenza di questa azione era essere “mazzolati” per bene dagli dei stessi, anche per le generazioni a seguire. Re e guerrieri, viaggiatori e condottieri: chi non è in grado di porre un limite alla propria ambizione (di ricchezze, donne o riconoscimenti) viene inesorabilmente punito dalla divinità con pestilenze e disgrazie varie. Nei miti ne è un esempio Icaro, ma anche il poema dell’Iliade si apre con una drammatica pestilenza che falcia gli Achei proprio a causa di un atto dell’hýbris del valoroso Agamennone.
Mettendo da parte per un attimo le divinità invidiose, quanto è attuale questa idea che la mancanza di misura, che la corsa sfrenata al successo – o all’eccesso – sia una colpa, una colpa grave che in qualche modo viene sempre punita e che ci tocca espiare per lungo tempo?
Una lezione che anche noi oggi (forse) stiamo imparando, dopo aver corso per decenni dietro all’illusione di una crescita illimitata. Meglio tirare un po’ il freno, essere felici il giusto, ricchi il giusto, potenti il giusto, accontentarsi senza prevaricare gli altri. Infatti all’hýbris si contrappone Diche, la giustizia, che ha a che fare invece con il senso della misura, l’equilibrio (la bilancia), il rispetto dei limiti.
Pàthei Màthos
Epperò non tutti i mali vengono per nuocere. Nell’antichità l’uomo aveva parecchia dimestichezza con la sofferenza tanto che la tragedia, ossia una rappresentazione teatrale che mette in scena i drammi dell’uomo, era una forma poetica con forti risvolti etici e civili. Vengono rappresentati aspetti della vita umana meritevoli di riflessione e dallo svolgersi delle (tragiche) vicende dei protagonisti se ne ricava un insegnamento utile a tutta la comunità.
Uno dei temi chiave della tragedia – per esempio in quelle di Eschilo – era proprio che la saggezza giunge agli uomini attraverso la sofferenza (questo significa la locuzione pàthei màthos) .
Mi piace questa idea che la sofferenza in qualche modo vada sperimentata, vissuta, affrontata. E che sebbene non sia una cosa piacevole (anzi, a volte proprio uno schifo) in qualche modo ci aiuti a diventare migliori. Non è tenendoci al riparo da dolori, delusioni o difficoltà che diventiamo più forti, non è evitando i confronti con gli altri che cresciamo (anche se ogni tanto sembra la via più facile, soprattutto durante l’adolescenza come testimonia il fenomeno attuale degli hikikomori). È proprio attraversando le difficoltà che impariamo qualcosa di più su noi stessi e sul mondo. Bisogna fare tesoro anche delle esperienze peggiori.
Il sublime
Mi sembra uguale agli dei
L’uomo che ti siede dinanzi
E vicino ti ascolta
che dolce gli parli
e desiderabile sorridi. Questo
fin dentro il petto sconvolge il mio cuore:
appena ti guardo, la voce
mi vien meno;
mi si spezza la lingua, sottile
improvviso il fuoco mi corre sotto la pelle;
con gli occhi non vedo più nulla,
gli orecchi mi rombano.
Mi cola il sudore, un tremito
mi prende tutta, e sono più pallida dell’erba.
Già quasi vicina a morire, senza respiro io sembro.
Questo splendido frammento lirico scritto dalla poetessa Saffo nel VII secolo a.c. è universalmente conosciuto come la prima descrizione mai fatta degli effetti dell’innamoramento. Dopo di lei migliaia di persone nel corso dei secoli hanno utilizzato in tutto o in parte queste espressioni e queste immagini per descrivere come ci si sente di fronte alla persona di cui si è innamorati.
È anche uno splendido esempio di cosa intendevano gli antichi per sublime. Un componimento, una espressione letteraria o artistica in grado di giungere nell’animo delle persone, commuoverle, colpirle e portarle a riflettere non attraverso la persuasione o la grazia formale ma con la forza del sentimento e l’universalità dei temi trattati. Un’aspirazione alla grandezza che sposa idee elevate ad uno stile espressivo alto.
In ambito culturale (ma anche politico) quando oggi ci affidiamo solo ai numeri, ai calcoli e ai dati non posso fare a meno di pensare che stiamo perdendo la capacità di sintonizzarci sul nostro “essere umani”, sui quei sentimenti universali che dovrebbero essere coltivati, sorretti, magari anche guidati verso l’alto.
Mi fermo qui. Se qualcuno volesse approfittare di questa quarantena per approfondire lo studio dei classici o cominciare da zero ecco alcuni consigli.
L’Università di Bologna ha una playlist sul proprio canale You Tube intitolata “Parole per noi”. Diverse decine di brevi video con grandi artisti del cinema e del teatro che leggono brani di autori classici: Omero, Virgilio, Platone, Seneca e tanti altri (link).
A Bergamo l’associazione culturale K’epos, in collaborazione con il Liceo Classico Paolo Sarpi, organizza nella Biblioteca Angelo Mai in Città Alta il ciclo di incontri “Voci dall’Antico” dedicati allo studio e alla spiegazione dei classici. Quest’anno, per esempio, il tema era “Gli antichi e la scienza”.
È possibile vedere i video degli incontri sulla pagina Facebook dell’Associazione (link).
Infine potete andare a leggere l’Elogio ai classici scritto da Umberto Eco (“La bustina di Minerva”, 2000). Qui non aggiungo altro (link)