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“La donna dalla vita rubata”: Organsa, di Mariangela Mianiti

Articolo. È il romanzo vincitore della trentasettesima edizione del Premio Narrativa Bergamo, assegnato lo scorso giugno. È il terzo libro della scrittrice e giornalista parmense: la storia di una madre (e di una famiglia nel Dopoguerra) raccontata dalla figlia, dal valore profondamente politico

Lettura 4 min.
L’autrice Mariangela Mianiti

Romanzo familiare ma anche di formazione, un memoriale d’infanzia con lo sguardo, la voce narrante e la sensibilità in divenire di una bambina, Aurelia, che cresce e registra la realtà che la circonda: i rapporti e le dinamiche di un mondo – una famiglia con tre generazioni sotto lo stesso tetto – che appaiono spietatamente immutabili proprio a cavallo dei grandi cambiamenti che investono il Paese nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta.

Organsa si apre nel presente, con Aurelia adulta che recupera e riannoda le sue memorie d’infanzia a partire da una serie di fotografie in bianco e nero scattate nella grande casa a Campetto di Sopra, piccolo paesino nella Bassa parmense dove lei e i tre fratelli sono cresciuti, e dove la famiglia – padre, madre e nonni – ha gestito per anni un’osteria e uno spaccio di prodotti alimentari.

Dopo una visita ai genitori anziani e una passeggiata rievocativa a Parma con la madre, il racconto si sviluppa in un lungo flashback che mette a fuoco in particolare proprio la figura della madre Luisa.
Giovane parmigiana, sarta di talento, è sradicata da Parma, dalla città: luogo di autodeterminazione, indipendenza, luogo del progresso e della modernità, di un futuro possibile e a portata di mano; viene trapiantata, con il marito e la neonata Aurelia, a lavorare in un paesino contadino della provincia parmense, in quella che il parassitismo di suo padre e il dispotismo di sua madre hanno deciso dovrà essere l’attività di famiglia (l’osteria con spaccio, appunto).

È così che il presente di un lavoro umile ma soddisfacente, di un’indipendenza economica, di un contesto dinamico fatto di socialità e nuovi stimoli diventa subito un passato da rimpiangere, e ben presto un sogno irrealizzato ma ancora vivo seppur quotidianamente calpestato da chi, invece, dovrebbe alimentarlo (la madre di Luisa in primis). Qualsiasi velleità di autodeterminazione è spazzata via dal retaggio atavico che considera una donna tanto più rispettabile quanto più in grado di immolare tutta sé stessa al servizio del marito, dei figli, della casa, del lavoro domestico. Al servizio di chiunque tranne che di sé stessa.

La famiglia che costruisce Mianiti pare quella istituzione totale che sarà presa di mira dalla generazione sessantottina (proprio quella di Aurelia): esclusiva, repressiva, separata. Quanto può essere nocivo il contesto familiare? Quanto può essere gretto, crudele, cinico l’approccio di una madre e di un padre nei confronti della figlia, dei figli? Terribilmente, ahinoi. Organsa lo ricorda bene, e senza mezzi termini, senza ipocrisie, senza colpi al cerchio e poi alla botte, senza edulcorare. Ricorda in particolare quanto lo sia stato in quell’Italia provinciale e contadina, spesso retrograda, povera e ossessionata dalla roba e dal culto del lavoro anche quando è sopraggiunto un minimo benessere: non conoscere respiro che non sia fatto per servire a qualcosa. Insomma, dietro le quinte dell’osteria di Campetto siamo lontani da quella festiva leggerezza dei semplici di cui scriveva Pasolini nel finale del Canto Popolare.

La dicotomia tra la città e la campagna è subito evidente, ed è interessante come Mianiti riesca a ribaltarne il classico paradigma (città luogo di alienazione/campagna luogo dell’anima). Campetto e l’osteria sono i luoghi dell’abbandono, dello svilimento, della rinuncia, di un sacrificio che non porta una promessa di redenzione ma solo l’abbandono di sé stessi, delle proprie ambizioni, dei propri sogni. L’osteria di campagna è nociva quanto un altoforno, quanto una catena di montaggio. Anche peggio, perché i padroni sono i genitori.

Per Luisa non esiste altro che il lavoro domestico, lo spaccio, l’osteria, le corse tra il banco e la lavatrice. Lo sfruttamento dei suoi genitori che sviliscono anche il marito che a sua volta si porta dietro una storia d’infanzia in estrema povertà, anche d’affetti. Ed è difficile non ereditare l’amarezza di quel sangue, di quella “tradizione” agra, e non finire per avvelenare anche i figli con quell’approccio crudele e cinico alla vita, ai rapporti personali, non abituarli a quella malora che è mestizia spirituale più che economica, un “paesaggio morale” dai riverberi fenogliani.

Eppure, tra mille fatiche, Luisa riesce a mantenere la passione della sartoria, ad aggrapparcisi per non andare a fondo. E l’osteria di campetto diventa non solo l’unico posto in cui trovare un telefono, il televisore per vedere Mike Bongiorno e Lascia o raddoppia?, o davanti al quale poter comprare un babydoll da un ambulante (in poche parole: dove osservare la modernità che avanza); ma è anche il posto in cui si trova l’unica sarta in grado di confezionare vestiti su misura per le resdore del paesello.

Certo, la città, Parma e tutto quello che rappresenta resta pur sempre “dall’altra parte della luna”, per dirlo con le parole di Lucio Dalla. Irraggiungibile, un traguardo per altri. La vita di Luisa resta incastrata dalla crudeltà dei suoi, nel quotidiano di animali e uomini di cascina, tra le frustrazioni taciute nel silenzio e le urla dei maiali sventrati e appesi a sgocciolare nella corte. Condividono un po’ la stessa sorte: restare così, appesi, a perdere una goccia di vita dopo l’altra, fino a seccare e sbiadire, giorno dopo giorno.

Una redenzione la otterrà la figlia Aurelia, sempre complice della madre seppur anche tra di loro vi sia un rapporto in cui è innaturale manifestare i sentimenti, dimostrarsi di volersi bene. Riscatterà la madre, donandole la dignità di una storia tramandata, proprio attraverso quel suo accompagnarci nel mondo della sua famiglia con sguardo lucido e sensibile, e con una lingua – nei dialoghi – che Mianiti costruisce usando un dialetto italianizzato, semplificato, un regionalismo di facile comprensione ma comunque fortemente caratterizzante (i “veh” e gli “abòta” onnipresenti), da cui scaturisce anche una specie di lessico famigliare che diventa più marcato soprattutto nei capitoli finali.

Con il tempo, l’italiano transgenico di mio padre ha creato una sorta di meta comunicazione familiare che capiamo, e usiamo, solo noi e fra noi. Ancora oggi, quando ci ritroviamo sommersi nella bagna incombente della Bassa, diciamo, un po’ ridendo e un po’ ricordando, «Senti che afta. Senti che stofego. Mo tira zò la veneranda veh».”

Da notare come Luisa non parli il dialetto se non in sparuti scatti di rabbia. L’italiano diventa così un rifugio, un antidoto, un altrove attraverso cui la donna marca una distanza con i genitori-padroni. Una distanza che non è sprezzante o supponente, destinata a colmarsi con il tempo, ma che esiste nei resoconti della piccola Aurelia. Del resto, ogni mondo, piccolo o grande che sia, è anche un fatto linguistico.

Organsa sul sito di Il Verri Edizioni

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