Continuiamo la scoperta di questa scrittrice e donna straordinaria (ne abbiamo già scritto qui) parlandone con Simonetta Bassi, docente di Storia della filosofia presso l’Università di Pisa e professore distaccato presso il Centro Linceo Interdisciplinare “Beniamino Segre”, ma anche coordinatrice dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
CD: In quale contesto culturale si muoveva Christine de Pizan?
SB: È nata a Venezia nel 1365 e si è trasferita in Francia la Corte alla corte di Carlo V per seguire il padre Tommaso da Pizzano, medico ed astrologo. Ha una formazione non canonica, è il padre che la spinge a studiare, la introduce al mondo delle lettere, esattamente come per i fratelli maschi. L’ambiente culturale che la circonda è quello della Corte francese dell’epoca, ricco di tensioni e problemi politici, all’interno dei quali lei però si destreggia con grande abilità. Christine de Pizan istituisce una vera e propria controcultura che si oppone alla tradizione in cui è inserita, ma nella quale riesce a stare, ben gestendo i conflitti, grazie alla capacità di comprendere i rapporti di forza e le dinamiche politiche che governano le corti con cui si trova a collaborare.
CD: Qual è la genesi de “La Città delle Dame”?
SB: Questo testo nasce in risposta a “Les Lamentations” di Matheolus, un trattato caratterizzato proprio da un accesa misoginia. De Pizan scrive “La Città delle Dame”, con l’intento di dimostrare quanto le donne non siano per niente inferiori agli uomini per natura. L’originalità e l’importanza della riflessione è nella messa in evidenza della capacità delle donne di dare un contributo effettivo alla dimensione civile, alla vita associata. Si tratta di una contestazione a tutti i testi misogini che caratterizzavano la cultura del tardo medioevo: se Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza, non vuol dire che li abbia creati ad immagine e somiglianza fisica, Dio non ha corpo e dal punto di vista spirituale siamo tutti uguali.
CD: A proposito di misoginia, Christine de Pizan rovescia la visione di inferiorità femminile degli ellenisti per dare un nuovo ruolo alla donna: cosa hanno in comune tra loro le dame?
SB: Le donne della città sono tutte virtuose, esemplari nella loro autoaffermazione. Il testo non difende le donne in quanto tali, ma in quanto meritevoli. La cultura tradizionale, consolidata, di stampo aristotelico, vedeva la donna fisicamente inferiore, come un uomo “mancato” dal punto di vista fisico. De Pizan sostiene che non sia questione di natura, di fisicità o di corpo; quello che distingue l’uomo dalla donna è una condizione socio-culturale, che vede penalizzate le seconde. Empiricamente distinti da una diversa vicenda. Se la donna non studia, se non ha possibilità di mettere in luce le sue capacità, è perché non viene messa nelle condizioni di dare dei risultati, di dimostrare ciò di cui è in grado, qui sta la diversità. Christine stessa, rimasta vedova con tre figli e orfana di padre, si ritrovò a fare i conti con una situazione economica disastrata, ma è riuscita a trovare i modi di risolvere, gestendo cause e pretendendo che le venisse riconosciuto ciò che le era dovuto.
CD: “La Città delle Dame” è quindi un testo tuttora attuale? Possiamo considerare De Pizan precorritrice della filosofia femminista moderna?
SB: La scrittrice ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in convento, senza mai prendere i voti, una scelta laica, che caratterizza la sua specificità, la sua individualità e la sua autonomia. È un personaggio estremamente interessante e penso che per le donne sia un riferimento utile, perché insiste sull’importanza della conoscenza e del sapere, unito all’essere avvedute, prudenti, in grado di stare nel mondo.
CD: Penso che autonomia sia una parola chiave per la sua figura…
SB: Secondo De Pizan una donna non può affidarsi ad altri se non alla propria capacità e sapienza. In un passaggio descrive come sia stata “imbrogliata” dal padre e dal marito, che non l’avevano mai messa al corrente della condizione economica familiare. Vale a dire che anche la non conoscenza empirica, delle cose quotidiane, genera sudditanza, difficoltà, problemi. Ma il sapere non basta, ci vuole impegno e il suo essere imprenditrice ne è testimonianza. Una sorta di responsabilità quotidiana e costante, anche insita, volta a combattere per il proprio ruolo, rivendicando la propria posizione. È straordinaria la sua capacità di auto-promuoversi con gli strumenti dell’epoca. Penso che questo sia ancora un insegnamento importante, unito al modo in cui ha sempre difeso le sue idee pubblicamente.
CD: Come nel caso dell’opera di Jean de Meung.
SB: Fu un’operazione interessante quella messa in atto contro il “Roman de la Rose”, poema allegorico ripreso e completato da Jean de Meung, uno dei testi più diffusi di tutto il medioevo. Christine ha condotto una vera e propria battaglia dalla quale ne è uscita vincitrice, perché riuscì a mostrare le contraddizioni misogine e antifemministe del testo anche ai sostenitori di tali tesi. Questa autrice è una figura che ci parla ancora, non è semplicemente il sunto della sua epoca, ma si proietta in un orizzonte che apre ad altre prospettive.
CD: Tre figure allegoriche le appaiono in sogno all’inizio del testo: Ragione, Giustizia, Rettitudine; hanno ancora oggi un valore declinabile nella società contemporanea?
SB: Oggi gli interlocutori sono molti sono diversi, la platea molto più ampia, parlerei di ragioni che si devono trovare all’interno di una dimensione civile, una sorta di contemperamento, di convivenza. Pensando all’interno di una dimensione collettiva è possibile condividere pezzi di verità e trovare uno spazio in cui tutti possiamo vivere in maniera migliore, anche nella prospettiva di superare il concetto di tolleranza, fondato su presupposti di superiorità. Questo vale anche per concetti più semplici, come la giustizia, ovvero trattare in modo diverso cose diverse e in modo uguale cose uguali. De Pizan ci ha insegnato molto a proposito: non dobbiamo mollare, bisogna insistere, avere un ruolo attivo nella società per dare un contributo.
CD: L’ultimo testo di Christine de Pizan è dedicato a Giovanna D’arco, quali altre figure hanno portato un messaggio di emancipazione della donna nella letteratura medievale?
SB: Erano tante le donne, tantissime! Scienziate, teologhe, umaniste, studiose di ogni genere, il problema è che, dalla fine del seicento in poi, c’è stato un occultamento dell’esperienza femminile dovuto anche ad una carenza storica, non venivano più censite. C’erano umaniste come Isotta Nogarola, teologhe come Olimpia Morata, poetesse come Battiferri, la farmacista Camilla Erculani e Margherita Sarrocchi che aveva un epistolario con Galileo. Ma anche donne filosofe come Marie de Gournay, o Anne Conway che interloquiva con i membri dei circoli neoplatonici di Cambridge. Fatta eccezione per alcune, poche, sembra che non ci fossero donne studiose, ma non è così, vanno riscoperte ed è compito nostro fare uno sforzo di memoria per ricostruire e ridare loro la voce che meritano.
CD: Riguardo a Lei, ha riscontrato difficoltà nel raggiungimento del suo ruolo professionale?
SB: Sono stata il primo professore ordinario di filosofia all’Università di Pisa, ora ce ne sono altre due, ma fino a prima di me, quindici anni fa, non c’erano state donne. Devo dire che dal punto di vista personale non ho avvertito discriminazioni, però è un dato di fatto che le donne incontrino più difficoltà verso il raggiungimento dei ruoli apicali, nelle università in modo significativo. Le fasce di ricercatori e dei professori associati sono molto più popolate da donne rispetto alla fascia degli ordinari, sono poi davvero poche le rettrici.