Poco più di 150 pagine, nell’inconfondibile formato compatto di Sellerio. Un gioiellino tutto rinnovato (e ritradotto) che si beve in un sorso o poco più. La versione di “Lenin, un uomo” a cura di Marco Caratozzolo – professore associato di lingua e letteratura russa all’Università di Bari, direttore scientifico del festival “Pagine di Russia”, autore e saggista – sembra mettere definitivamente ordine agli scritti frastagliati con i quali Maksim Gor’kij fu chiamato a tracciare un personale profilo dell’uomo politico più influente della storia contemporanea. Insomma, roba non da poco.
“La cosa bella di questo testo – spiega Caratozzolo – è che si va formando mentre Gor’kij scrive. Non intende fare un panegirico di Lenin, ne criticare le cose che lui veramente voleva criticare. Va al cuore della questione, che è l’uomo Lenin. Io mi sono fatto l’idea che mentre scriveva questi ricordi aveva sempre più voglia di lasciar perdere la politica e descrivere le caratteristiche dell’uomo. Non è una cosa di poco rilievo perché al tempo della morte di Lenin, come si può immaginare, vennero scritti tantissimi saggi biografici che mettevano in evidenza, in modo anche un po’ meccanico e altisonante, i meriti politici di Lenin. In questo scritto invece si va al cuore dell’uomo. E non mancano elementi di contraddizione, perché Gor’kij scrive che in alcuni punti lui non era d’accordo con Lenin. O quantomeno lo fa intendere”.
Il modo in cui si racconta una persona rivela non solo chi è detto ma anche chi dice. Scegliere, includere, escludere, emendare significa connotarsi come autore, come scrittore in questo caso. Anche alla luce delle diverse versioni del testo (furono tre quelle pubblicate: nel 1924, nel 1927 e nel 1931), di modifiche e interpolazioni dell’ultima versione – cui Caratozzolo riserva un’ampia disamina – il profilo di Lenin finisce per raccontare anche il Gor’kij-autore, il contesto in cui si è ritrovato a scrivere, il rapporto proteiforme tra la letteratura (con il valore testimoniale che può assumere) e il potere, quindi il rapporto tra i semplici uomini che esercitano l’una e l’altro. E che in qualche caso particolarmente memorabile ci porta davanti a due trentenni che possono essere due come tanti, ma che allo stesso tempo sono due come non ce ne sono più.
“Da un lato c’è la versione che ho tradotto (quella del 1927, ndr) e non si conosceva in Italia, in cui viene raccontato più l’uomo. Poi nel 1931 chiedono a Gor’kij di rimpolparla con degli episodi più politici, perché sono quelli che rimandano all’uomo russo di quel tempo, l’uomo sovietico che voleva costruire Stalin: tutto d’un pezzo, che non aveva debolezze, che non si lasciava andare a sentimenti, il Lenin dal pugno duro”.
Gor’kij invece percorre altre vie: “nel ritratto umano che fa e che può pubblicare prima dell’avvento di Stalin, fa emergere i tratti tutto sommato più bonari di Lenin. Non voglio dire che nel ritratto umano di Gor’kij, Lenin appaia come una persona debole o solo in preda ai sentimenti; però è evidente che gli episodi di questa prima versione – quella con i pescatori di Capri per esempio – si riferiscono anche all’uomo che aveva delle debolezze, delle passioni, che si lasciava andare insomma. Questo ritratto di Lenin noi non l’abbiamo mai visto da Stalin in poi”.
È quindi un punto di vista privilegiato dall’intimità del rapporto. Ma, come avrebbero detto qualche decennio più tardi tanti di coloro che si spesero nel rinnovamento critico del leninismo, anche il personale è politico. E così molti degli elementi squisitamente ordinari portano alla luce una sensibilità radicalmente umana. Che che fa i conti con la propria umanità e con quella degli altri e si fa grande e inaspettata tanto più non è esibita. Questi momenti contribuiscono, seppur lateralmente o in piccola parte, a qualificare la caratura politica, a costruire il mito di Lenin sulla grande distanza.
“Ma comunque per me è stato particolarmente grande in lui proprio questo suo sentimento di incompatibile, inestinguibile avversione per le disgrazie degli uomini, la sua fede luminosa nel fatto che la disgrazia non sia il fondamento dell’esistenza, ma quel sozzume che gli uomini devono e possono tenere lontano da sé. Io chiamerei questo lato fondamentale del suo carattere ottimismo impegnato ed era un suo tratto non russo. E fu proprio questo ad attirare la mia anima verso quest’uomo, un uomo con la lettera maiuscola.”
Ancora Caratozzolo: “Oggi possiamo riflettere con una certa libertà. Si sanno molte più cose su Lenin, i documenti d’archivio sono stati resi disponibili, sappiamo quali erano le caratteristiche di quest’uomo, oltre che del politico di cui ormai si è detto praticamente tutto. Il fatto che i leader del potere avessero delle debolezze umane e, come dire, si lasciassero andare anche a questa umanità ci fa capire, beninteso, non certo che fossero persone solo buone o solo cattive, ma che erano persone molto complesse, il cui operato non può essere giudicato o tutto bianco o tutto nero come talvolta si fa, ma dev’essere giudicato secondo anche le qualità caratteriali”.
La possibilità di osservare Lenin come dal buco della serratura resta proprio il valore più grande di questo piccolo volume: nel cucinino del suo modesto appartamento parigino, alla finestra intento a fissare una lontananza, in un appartamento moscovita ad ascoltare l’“Appassionata” di Beethoven che gli fa vacillare l’animo, al tavolo del suo ufficio, sulle barche dei pescatori di Capri che lo chiamano “Signor Drin-Drin” e gli insegnano a pescare con la sola lenza, rapiti dal suo magnetismo, dal “riso sincero”.
Onore al merito di Gor’kij dunque, alla sua capacità di caratterizzare il personaggio (l’uomo e il politico). Usando, talvolta, uno stile cinematografico, una struttura episodica che ha qualcosa della serialità televisiva di oggi. Emblematico in questo senso – e interessantissimo – il passaggio sui giorni del secondo Congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo di Londra, del 1903 (quello della scissione in “bolscevichi” e “menscevichi”).
Ci si immagina facilmente il marasma convulso della sala, le nebbie di tabacco. Dal palco scende Rosa Luxemburg, prima di lei hanno parlato Plechanov, Fedor Dan, Martov. E poi arriva Lenin, sale “di fretta sulla cattedra”, pronuncia “‘tovarišči’ (‘compagni’ in russo, ndr) con la erre moscia” e dopo solo un minuto ognuno è “inghiottito dal suo discorso”: “il braccio allungato in avanti e leggermente sollevato, il palmo che sembrava soppesare ogni parola” nel pronunciare l’intervento “con ardore, ma anche calma e persuasione”, “come se non fosse cosa sua, ma provenisse direttamente dalla volontà della storia”. E poi le urla che ne interrompono il discorso, la veemenza del confronto che esplode e fa esplodere il congresso e lascia “un’aria cattiva e rovente, di dispiacere, ironia, odio” a volteggiare per la sala.
Poi scopriamo il personaggio Lenin che “i minuti e le ore libere li trascorreva tra gli operai, si informava sui più piccoli dettagli della loro vita. «E le donne, come stanno? I lavori domestici sono pesanti? Ma comunque studiano, leggono?»”. O negli svaghi di una serata libera al teatrino popolare del Music-hall di Londra:
“Vladimir Il’ič rideva con gusto, in modo contagioso, osservando i pagliacci, gli eccentrici, guardava con indifferenza tutto il resto, ma con particolare attenzione il taglio della legna da parte degli operai della Columbia Britannica. La scenetta raffigurava un campo di lavoro in un bosco”. (...) “Cominciò a parlare dell’anarchia della produzione nel regime capitalista, dell’enorme percentuale di materia prima che viene sprecata, e terminò esprimendo disappunto per il fatto che fino ad allora nessuno era arrivato a scrivere un libro su questo tema”.
Insomma, un libro con elementi inaspettatamente contemporanei e che non manca di aprire spazi di riflessione anche sul presente. Sicuramente da (ri)scoprire.
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