“Dio mi conceda / la serenità di accettare / le cose che non posso cambiare / il coraggio / di cambiare quelle che posso / e la saggezza / di comprendere sempre / la differenza”. Aveva appeso questa preghiera Billy Pilgrim, il protagonista di “Mattatoio N. 5”, nel suo ufficio da impiegato fisicamente scampato alla Seconda guerra mondiale ma mai del tutto nella psiche e nello spirito.
Pilgrim assistette al bombardamento della città di Dresda, strage fra le più cruente e inutili del conflitto planetario. E sopravvisse perché i tedeschi avevano relegato lui e altri prigionieri a lavorare in un macello sotterraneo, per riemergere solo a strage conclusa, raccogliere i cadaveri e bruciarli.
Vonnegut nel suo romanzo di maggior successo aveva provato a fare i conti con l’evento più importante e traumatico della sua vita filtrando l’accadimento attraverso lo sguardo di Pilgrim. Il Pellegrino vittima di quel santuario di morte che da lì in poi avrebbe generato tutta la rabbia, la disillusione, l’ironia cinica ed esilarante, ma pure l’estrema vitalità letteraria, dello scrittore americano, nato a Indianapolis nel 1922 e morto a New York nel 2007 per un banale incidente domestico (cadde a terra inciampando nel guinzaglio del suo cane e morì per i traumi della caduta).
Era questo Kurt Vonnegut: un uomo a dir poco inquieto, grande fumatore e bevitore, capace di profonde depressioni come di slanci di ottimismo verso il genere umano. Un looser vincente solo sulla pagina scritta che pagò le conseguenze della guerra fino all’ultimo giorno della sua vita. Pur essendo, proprio grazie al suo Mattatoio uscito nel 1969, una specie di anti-eroe del pacifismo americano oltre che uno dei nomi importanti della letteratura d’oltreoceano del secondo novecento. Prima dedito alla fantascienza con romanzi come “Piano meccanico” (1952), “Le Sirene di Titano” (1959), dove compare per la prima volta il pianeta Tralfamadore e “Ghiaccio-nove” (1963). Poi autore che contamina sempre di più la fantascienza con altri generi (in parte “Mattatoio n.5” è a suo modo anche un romanzo storico) e con l’ironia, la satira, l’assurdo. Per puntare il dito contro l’idiozia insita nel potere e contro l’illusorietà del sogno americano. Smontato a colpi di romanzi e racconti straordinariamente immaginifici. Tanto da diventare il rifugio e la momentanea catarsi di uno scrittore al pari vivido e disperato.
“Mattatoio n. 5” è ambientato a Dresda, a Tralfamadore e in America, dove Billy dopo la guerra viene ricoverato per un forte stress post-traumatico. Dalla sua terra natale intraprende un viaggio nello spazio e nel tempo che lo porta prima sul pianeta dove vive e si innamora, e poi di nuovo nella città di Dresda. Quest’ultimo approdo è il sigillo di un romanzo che all’interno di questi quattro luoghi esistenziali vive di numerose storie, ribaltamenti, risate (molte), dolori ed episodi meta-letterari come quello della comparsa in scena dello scrittore fantascientifico Kilgore Trout.
“La crociata dei bambini” è l’altro titolo di “Mattatoio n. 5”, dove i bambini sono i tanti giovani americani che vennero mandati a morire durante la guerra alla Germania di Hitler: Vonnegut era uno di loro, partì come volontario nonostante allora sposasse le idee isolazioniste di uno come Lindbergh. Dresda gli cambiò la vita, lo fece diventare un punto di riferimento per la sinistra americana durante il Vietnam, lui che in fondo era un conservatore. Ma soprattutto quella terribile esperienza gli lasciò un punto di vista differente sulle cose del mondo. Nel Mattatoio questa visione si traduce in un grido profondamente umanista contro ogni tipo di guerra e contro l’istinto di violenza che ciclicamente insanguina la palude della storia.
Vonnegut inoltre non sarebbe tale senza il suo stile, una scrittura colloquiale (anche verso il lettore) che riprende l’irrefrenabile slancio narrativo di autori come Céline, Swift, Twain. Ma duella pure con la fantascienza novecentesca e distopica di Orwell e Dick e ha il gusto della narrazione complessa, intrecciata, della “bella storia” alla Dickens. Per questo i libri del nostro non vanno troppo raccontati, ma solo accennati: perché travolgono in quanto grandi storie vertiginose, dove ci si può aspettare di tutto e in fondo a volte si ha la sensazione che neppure l’autore sappia bene dove andrà a finire. Vonnegut è uno scrittore che sembra lasciarsi trasportare dalla furia della penna. In realtà però questa è solo una sensazione, creata da un grande architetto della narrativa che insegnò anche scrittura creativa ad Harvard.
“Dio mi conceda / la serenità di accettare / le cose che non posso cambiare” ed è forse tutta qui l’essenza di Vonnegut, che lottò contro i suoi fantasmi per tutta una vita carica di contraddizioni, divorzi, sofferenze, fede e disprezzo verso l’umanità, e tanta tantissima scrittura. In fondo se il passato è un’onda immutabile che ci insegue per sommergerci, rimane sempre la letteratura, che tutto può nel tempo di una pagina potente dall’eco profondissima. “Billy è andato a dormire che era un vedovo rimbambito e si è risvegliato il giorno delle sue nozze. Ha varcato una soglia nel 1955 ed è uscito da un’altra nel 1941. È tornato indietro da quella porta e si è ritrovato nel 1963. Ha visto molte volte la propria nascita e la propria morte, dice, e rivive di tanto in tanto tutti i fatti accaduti nel frattempo”.
“Mattatoio n. 5” verrà messo in scena per Fiato ai Libri venerdì 18 ottobre al Cineteatro sala della comunità di Calcinate, nel cinquantesimo anniversario del Festival di Woodstock (ore 20.45, ingresso libero fino ad esaurimento posti). Sul palco le voci narranti di Marco Pedrazzetti e Michele Marinini, la cantante Carmen Cangiano e i musicisti Michele Agazzi (chitarra) e Marco Azzerboni (basso ed elettronica).