È ammissibile, in casi estremi, che per fare giustizia si superino i limiti della legge? In “Indipendenza” di Javier Cercas (Guanda, pp. 416, 19 euro, ebook a 9,99 euro) Melchor Marín, il poliziotto bibliofilo già protagonista di “Terra Alta”, persegue dei fini di per sé positivi con mezzi brutali (già da quando, nel capitolo che funge da prologo, libera dal loro sfruttatore delle prostitute nigeriane).
“Il mio romanzo – spiega Cercas – è incentrato appunto su questa domanda: la violenza, in particolare nella forma della vendetta personale, può essere un modo per fare giustizia? In ultimo, il lettore non troverà una risposta. Se però mi si chiede come io la pensi, al di fuori della cornice letteraria, sostengo di no, che il ricorso alla vendetta non sia mai giustificato. Condivido le parole che in ‘Terra Alta’ avevo fatto pronunciare a un viceispettore di polizia: ‘La giustizia non è soltanto una questione di contenuto. È soprattutto una questione di forma. Perciò non rispettare le forme della giustizia è la stessa cosa che non rispettare la giustizia’”.
Nato in Estremadura nel 1962, ma catalano d’adozione, Cercas è stato finora tradotto in più di trenta lingue; sabato prossimo alle 21, presso l’ex complesso monastico di Astino, sarà ospite dell’edizione 2021 del Bergamo Festival: “Rapporti generazionali ed eredità ideologiche” il tema del dialogo a cui prenderà parte, rispondendo alle domande dell’editorialista de “L’Espresso” Gigi Riva e del presidente della rassegna Corrado Benigni (ingresso gratuito con prenotazione online obbligatoria sul sito del Festival).
All’inizio di una nostra conversazione con Javier Cercas, gli chiediamo di ritornare sul mélange di tenerezza e violenza che caratterizza il personaggio di Marín. “La letteratura è un potente strumento di conoscenza: quando sento qualcuno dire che non ama leggere, sono tentato di esprimergli le mie condoglianze. Ma come fa, la letteratura, ad ampliare le nostre conoscenze sulla condizione umana? Lo fa mettendo in dubbio qualsiasi nostra certezza iniziale, qualsiasi presunta evidenza. Così, siamo obbligati a uscire dalla nostra zona di conforto: grazie alla finzione letteraria, siamo portati a empatizzare con personaggi e idee da cui, nella vita reale, ci sentiremmo lontanissimi. Mediante la narrazione siamo posti di fronte a ciò che un grande filosofo francese, Georges Bataille, chiamava ‘la parte maledetta’: la componente bestiale, perlopiù celata, socialmente inaccettabile della nostra personalità”.
GB: Leggendo “Delitto e castigo” di Dostoevskij, ci sentiamo vicini a Raskolnikov, anche dopo che ha ammazzato a colpi d’ascia una vecchia usuraia e la sorella di questa?
JC: Esattamente. Aristotele attribuiva alla tragedia il compito di indurre nello spettatore una catarsi, una purificazione delle passioni: ma perché si possa arrivare a questo, tali passioni devono essere rappresentate. Quando la letteratura decide di sorvolare sugli aspetti contraddittori, tenebrosi dell’esperienza umana finisce col trasformarsi in ideologia o in una cattiva pedagogia.
GB: Perché, per un romanzo che tratta di ricatti e altre sozzure morali nell’alta società di Barcellona, ha scelto il titolo “Indipendenza”?
JC: “Indipendenza” è una parola decisamente polisemica: la maggior parte dei lettori e dei critici ha subito pensato che mi volessi riferire alla questione del secessionismo in Catalogna. Però si è soliti parlare anche di “indipendenza personale”, di “indipendenza economica”: mi piace molto l’ambiguità che connota questo termine. Del resto, Umberto Eco riteneva che il titolo più bello della letteratura universale fosse “I tre moschettieri”, perché i protagonisti dell’opera di Dumas – contando D’Artagnan – sono quattro. Il titolo che ho scelto, “Indipendenza”, ha anche un tono leggermente provocatorio. In Catalogna e altrove, i secessionisti hanno seguito la regola per cui, se si vuol governare la realtà, occorre esercitare un’egemonia sul linguaggio: così, si sono impossessati di parole bellissime, come “libertà” e “dignità” – oltre a “indipendenza”, appunto – piegandone il senso in funzione del loro progetto politico. Io credo sia giunto il momento di riappropriarsi di questi vocaboli, nelle diverse loro accezioni. Nel mio romanzo, oltre a Melchor Marín c’è un deuteragonista, Ricky Ramírez: è un uomo che ha cercato nel corso della sua vita l’indipendenza, il successo personale ed economico seguendo un consiglio che gli aveva dato suo padre, “Avvicinati ai buoni e sarai uno di loro”.
GB: I “buoni” di cui si parla, però, sono i potenti.
JC: Sono i membri di un’élite incistata nei luoghi del potere, che usa esclusivamente a proprio vantaggio. Anche se “Indipendenza” non è un romanzo politico, questo corrisponde a ciò che è avvenuto in Catalogna negli ultimi anni, dietro il paravento della lotta per la secessione. Ritengo che occorra rafforzare la democrazia, se si vuole contrastare la tendenza delle oligarchie ad asservire le istituzioni ai propri interessi, magari ricorrendo all’armamentario retorico del populismo.
GB: L’edizione di quest’anno del Bergamo Festival avrà come titolo generale “Di generazione in generazione. Costruire il presente per abitare il futuro”. La democrazia non corre il rischio di svuotarsi di senso, se nel passaggio da una generazione all’altra va persa la memoria di quanto è accaduto? Nelle pagine introduttive a un altro suo libro, “Anatomia di un istante”, lei citava i risultati di un sondaggio, secondo i quali un quarto degli inglesi crederebbe che Winston Churchill sia un personaggio di finzione.
JC: Dalla verità storica la democrazia ha assolutamente bisogno. “La verità vi farà liberi”, leggiamo nel Vangelo di Giovanni: questo significa, per contrasto, che la menzogna rende schiavi. Io ho ricevuto diversi premi come giornalista, ma ogni volta dico alla giuria che hanno scelto la persona sbagliata, perché mi limito a scrivere un paio di articoli al mese per El País. Sono però convinto che di un buon giornalismo oggi ci sia più bisogno che mai. Intendiamoci, anche in passato si raccontavano menzogne: però nell’epoca attuale il potere di persuasione di queste è molto cresciuto, perché possono diffondersi rapidissimamente tramite i social network, al di fuori di qualunque controllo. Ripeto: non c’è democrazia in assenza di una verità sul presente e nemmeno se manca la verità sul passato. Ricordiamo la frase famosa di Orwell, in “1984”: “Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”.
GB: In diversi suoi romanzi però, a partire dal bellissimo “Soldati di Salamina”, lei combina una ricostruzione minuziosa di eventi trascorsi con elementi di finzione: un po’ come avviene nei racconti di un autore da lei molto amato, Borges.
JC: Non mi pare che questo sia in contraddizione con quanto ho appena detto. Nel giornalismo e nella storiografia non è lecito mescolare verità e finzione, ma nella letteratura è sempre accaduto: la finzione narrativa non è mai allo stato puro, nasce sempre dall’intreccio tra invenzione e dati di realtà. Una finzione “assoluta”, al limite, non sarebbe nemmeno intelligibile. Così, il Javier Cercas che in “Soldati di Salamina” indaga in prima persona su un episodio della Guerra civile spagnola – relativo a uno dei fondatori della Falange, Rafael Sánchez Mazas, che verso la fine del conflitto fu risparmiato da un soldato repubblicano – in parte mi assomiglia, ma non sono io. Oggi si parla di autofiction, per indicare dei racconti o romanzi in cui l’autore rientra tra i personaggi, ma non si tratta di una novità. In questo 2021 stiamo celebrando i 700 anni dalla morte di Dante: ma ciò che egli narra nella “Commedia” circa il suo viaggio nei tre regni dell’aldilà non ha certamente il carattere di un resoconto storico.
GB: Scrivendo “L’impostore”, però, lei si è sottomesso pienamente al principio di realtà.
JC: In questo caso sì. “L’impostore” racconta, anche attraverso gli incontri che avevo avuto con lui, la vicenda di Enric Marco, un mio connazionale che sosteneva di essere stato imprigionato durante la Seconda guerra mondiale nel campo di concentramento di Flossenbürg, in Germania. Marco era addirittura divenuto presidente dell’Amical de Mauthausen – l’associazione che ricorda i deportati spagnoli nei lager nazisti – e teneva regolarmente delle conferenze nelle scuole, finché, nel 2005, non fu sbugiardato dallo storico Benito Bermejo: quest’ultimo dimostrò che Marco non era mai stato in un lager e che in Germania era andato, a suo tempo, come lavoratore volontario. Ne “L’impostore” ho voluto sottolineare l’importanza di fare i conti con il passato, ma con un passato vero, non ridisegnato a nostro piacere, secondo le mode del momento. In effetti, il caso di Enric Marco è emblematico di una nuova “industria della memoria”: se l’industria dell’intrattenimento si basa sul kitsch estetico, quella della memoria produce il kitsch storico, regalando ai suoi consumatori l’illusione di poter conoscere la storia reale senza sobbarcarsi la fatica di approfondire, di comprendere, di distinguere. Ogni Paese è erede di un passato che comprende episodi positivi e funesti. Recentemente in Spagna, ripercorrendo le vicende della Guerra civile e del regime di Franco, si è pensato di abbellire questa eredità, immaginando che quasi tutti fossero stati antifranchisti, vittime e oppositori della dittatura.
GB: È quanto aveva fatto a livello individuale Enric Marco, “riscrivendo” la sua biografia.
JC: Certo, e le sue bugie corrispondevano perfettamente a ciò che la maggior parte dell’opinione pubblica voleva sentirsi raccontare. Occorre invece il coraggio di tenere fisso lo sguardo sulla verità storica, nella sua complessità, accettando le vertigini e il disagio che ne possono derivare, perché solo la realtà può esserci d’aiuto.